Nella sua lettera Bryan dice anche altre cose, al di là delle necessità di ricostruire un minimo le cause dell'incidente, i minuti che lo hanno preceduto, e la sequenza tragica dei fatti. Anche al di là di quanto si ripete sempre dopo ogni (per fortuna rara) tragedia della vela: che occorre prestare sempre più attenzione alla sicurezza, attiva e passiva, che oltre alla burocrazia delle dotazioni occorre una cultura dell'andar per mare che comprenda - quale parte integrante delle tecniche veliche - la gestione delle emergenze. Bryan però dice tanto di più, dice la cosa più importante che possa dire un velista che ha visto poche ore fa morire in mare alcuni amici di una vita. Dice, con chiarezza e a beneficio di tutti, fuori e dentro al nostro mondo velico, che la vela, l'andare per mare, il partecipare a regate oceaniche o d'altomare, in tutte le condizioni meteo, è una scelta di vita e di passione, una specie di vocazione, di "chiamata", alla quale non si può smettere di rispondere a seguito di un tragico incidente. Anche per questo richiama le frasi kennedyane sul sale che scorre nel sangue dell'uomo. Da parte nostra aggiungiamo che di sicurezza a vela e di navigazione e regate in ogni condizione meteo, ma anche di fatalità, incidenti e naufragi, si può e si deve parlare, senza ritrosie, senza reticenze, senza fare scongiuri. E ricordando sempre che tra i vari sport e discipline la vela resta tra quelli con l'incidenza di sinistri di gran lunga inferiore alla media.
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03/10/2016 16:10