blog | Di Roberto Soldatini
05/07/2014 - 13:39
Attorno alla punta dello stivale. La costa calabra tra orrori e meraviglie.
All'improvviso, all'alba, quaranta nodi nel golfo di Taranto
La mia rotta quest’anno è condizionata da un’impegno di lavoro con il conservatorio. Il 1° luglio dovrò lasciare la barca per un giorno sulla costa ad est della Calabria e prendere un treno per Potenza. Così farò il giro attorno alla punta dello stivale prima di attraversare lo Ionio, in rotta per l’Egeo.
A mezzogiorno attracco al marina di Tropea, dopo circa diciotto ore di navigazione. Il pilota automatico Simrad ha funzionato per tutto il tempo. Evviva. La prossima navigazione userò l’altro autopilota, quello nuovo, il Garmin. Per ora mi va di lusso, non mi sembra vero, rispetto all’anno scorso, quando sono dovuto stare da solo giornate intere al timone, perché sia il vecchio Cetrec che il Simrad non ne volevano sapere di funzionare.
All’antico borgo di Tropea, incastrato sull’imponente roccia di tufo a picco sul mare, stanno sparpagliando per strada televisori ovunque, messi nei modi più improbabili, per vedere la partita della nazionale senza lasciare il negozio. L’anziana libraia osserva stupita insieme a me cinque negozianti in piedi, allineati con le spalle al muro, cantare l’inno italiano davanti a un piccolo schermo Lcd, posto su un carrellino al lato opposto del vicolo.
Poi il mio immancabile appuntamento con il Vecchio forno. Fino agli anni Settanta era l’unico a Tropea. I proprietari, i fratelli De Vita, Aldo e Mario, raccontano che nel dopoguerra, dopo che avevano finito di sfornare il pane, diversi compaesani vi portavano le loro pietanze affinché gliele cuocessero, perché molti non avevano la cucina in casa. Anche quando poi l’hanno avuta è continuata la tradizione, più che altro perché i cibi cotti nel forno a legna sono più buoni. Ora è una caratteristica pizzeria, che ha conservato le vecchie sembianze del forno. Oltre alla pizza, la specialità della casa sono le verdure locali cotte al forno a legna, servite con la focaccia come pane. Che meraviglia, un vecchio forno, i vecchi sapori, le vecchie tradizioni. Grazie alla famiglia De Vita che continua a perpetuarle con passione, e mi accoglie sempre con simpatia. Un appuntamento immancabile.
Dopo nove ore di sonno profondo è ora di studiare le carte meteo. Ma il vento forte da sud che fine ha fatto? Mi sono rifugiato qui facendo diciotto ore di navigazione perché sarei rimasto bloccato da un forte vento da sud, e dove sta? Doveva arrivare ieri e invece ieri c’era calma piatta. Sulla carta meteo c’era una macchia rosso scuro per oggi, che vuol dire vento intorno ai trenta nodi. Stamane invece è sparita misteriosamente dalle carte. I casi sono due, o la nostra atmosfera è in tilt, oppure i nostri meteorologi si fanno troppe canne.
Mollo gli ormeggi da Tropea con trenta nodi di raffiche da terra. E’ solo il vento catabatico, quello che scende in accelerata dalle montagne sovrastanti. Uso la tecnica imparata in Grecia. Una cima a poppa a doppino da filare e una legata alla prua della barca a fianco per girarsi. E poi via veloci.
Fuori dal porto trovo una decina di nodi da sud. Alla fine è arrivato. Con ‘solo’ due giorni di ritardo rispetto alle previsioni degli uomini. E ora dicono che dovrebbe girare a maestrale verso la mattinata. Cosa che dovrebbe permettermi di raggiungere Scilla. Sarà vero? Proviamo. Niente. Cambia solo verso metà pomeriggio. Però da sud a sud-sud ovest (verificato da fermo), che non è maestrale. Riesco comunque ad arrivare a Scilla con una bella bolina.
Mi predispongo ad agganciare una boa quando vedo arrivare un gommone degli Arena. E’ Nino. Molto giovane, ma già con una grande esperienza nelle manovre, e soprattutto molto gentile, come tutti loro. Su disposizione dello zio Giovanni mi fa mettere di fianco alla punta del molo dei pescatori. Poi mette la mia ancora sul gommone e gli da fondo una ventina di metri davanti alla prua per scostare un po’ la murata dal molo di cemento. “Così starai sicuro”, mi dice. Perché in caso di maestrale il campo boe non è protetto.
Persone meravigliose gli Arena. L’anno scorso hanno salvato Denecia da un possibile naufragio. Il motore si spense all’uscita dello stretto, gli scogli erano vicini, la corrente mi ci spingeva contro, niente vento per allontanarsi a vela, niente fondale per fermarsi con l’ancora. “Incidit in Scillam qui vult vitare Charybdim”. Ma Giovanni uscì con il gommone e mi spinse fino in porto. Non mi chiese niente, né per il salvataggio, né per essere poi sceso son le bombole a controllare le prese a mare. Solo la boa. Solo trenta euro a notte.
La famiglia Arena, i fratelli Giovanni, Peppe, Rocco, Francesco e Clemente, insieme ai cugini Nino, Rocco e Carmelo, svolgono questa attività da vent’anni, continuando quella che aveva intrapreso il nonno cinquant’anni fa: gestire le boe di ormeggio nel porto di Scilla.
Usano un sistema che potremmo chiamare eco compatibile: ogni anno, ad aprile, sistemano le catenarie sul fondo abbracciandole agli scogli. E a fine settembre, smontano tutto. Vorrebbero migliorare i servizi, ma lo stato non gli viene incontro. Loro comunque si sono dati da fare e hanno messo in piedi diverse attività. Vicino alla roulotte-ufficio dell’ormeggio c’è l’originale chiosco di Clemente, ricavato da una vecchia barca da pesca. E’ quella del padre. Quella con cui ha cresciuto la famiglia. Ora sulla falchetta non passano più le reti da pesca ma i wafel con marmellata di fragole e scaglie di cocco, secondo una ricetta della moglie irlandese di Clemente. In un altro modo la barca di papà Arena continua a provvedere, ora come allora, al sostentamento della famiglia.
E a pochi metri, i cugini Massimo e Peppe hanno un ristorante, Antrois, il più apprezzato di Scilla. Il pesce è quello pescato dal padre Rocco. Più “chilometro zero” di così sarà difficile: le spadare, le tipiche barche per la pesca del pesce spada, sono ormeggiate proprio all’interno del piccolo porticciolo di Scilla. Fiori di zucca ripieni di ricotta, gamberetti e patate. Tortiera di spatole e melanzane. Frittelle di bianchetto. Gamberi impanati al forno. Questi sono solo gli antipasti. Poi pesce spada alla salvia e limone. Un’armonia di sapori di mare. La musica del mare volendo è anche questa.
Da Scilla, per tutto lo stretto di Messina e oltre non ci sono porti né ancoraggi fino a Roccella Ionica. Oltre settanta miglia girando attorno alla punta del piede calabro. La costa calabra, con le sue spiagge bianche, lunghe chilometri, lambite dalla macchia mediterranea, è stupenda. Mi si riempiono gli occhi ogni volta che ci passo. E ogni volta mi si riempie il cuore di rabbia, per il massacro che gli italiani ne han fatto: scheletri di edifici incompiuti e abbandonati, rotaie che squarciano pinete o chiudono l’accesso alle spiagge, borghi antichi circondati da brutte costruzioni, come a sottolineare l’attuale decadenza in contrapposizione con la grandezza delle nostre origini.
Dopo Capo spartivento, lo dice il nome, il vento è cambiato. Ora è in fil di ruota. Con la barca che rolla, per non stressare le attrezzature, adotto la mia “regolazione demenziale numero due”, sperimentata un po’ per caso, un po’ per necessità sulla rotta raccontata in La musica del mare. Non sarà accademicamente corretta, ma funziona, e mi fa giungere a destinazione con una buona andatura.
Dove ormeggio c’è una bella barca con il pozzetto centrale. Dal chiedere che modello è all’essere invitato a cena il passo è breve, come spesso capita tra velisti. Soprattutto quando uno è solo, come me, e sull’altra barca c’è qualcuno che cucina. Nili e Cengiz sono turchi. Lui aveva un cantiere che costruiva barche. Prima di ritirarsi ha preso un progetto di Dick Zaal e ha costruito Vega per fare il giro del mondo con la sua compagna. Fino a dicembre gironzoleranno per il Mediterraneo, Sicilia, Tunisia, Sardegna, Baleari. Poi la traversata dell’Oceano. Sembra l’inizio della storia raccontata da Giuliano Gallo nel suo bellissimo romanzo Aliseo.
Sul loro piatto, nel pozzetto di Vega, c’è un pasticcio a base di carne. Nel mio, essendo vegetariano, una strana verdura che Cengiz mi ha mostrato non cucinata, ma che non sono riuscito a riconoscere. Molto buona, cucinata in modo molto piccante.
Che bello ritrovarsi nel pozzetto di una barca scambiando storie, di mare, di vita. E’ uno degli aspetti più stimolanti dell’andar per mare. Roccella Ionica è un crocevia di tante rotte, con il fascino di un porto in disuso. Ma non più. Francesco al telefono mi aveva preannunciato orgoglioso che è partita le gestione del marina, e che lui ne è il direttore. Non ci sono i corpi morti, ma ora ci sono le docce, il wifi, le colonnine illuminate della luce e dell’acqua.
Mentre mi godo una pigra navigazione di bolina a quattro nodi verso Crotone, rifletto sul fatto che forse dovrei accendere il motore per arrivare con la luce. Rifletto anche sul fatto che per rispettare le tappe e arrivare a Taranto in tempo mi tocca usare il motore più di quel che avrei voluto. Ma se continuassi a vela fino a domani mattina? Denecia va che è una bellezza.
Controllo le previsioni, pur essendo piuttosto approssimative. Oh oh. Domani pomeriggio nel golfo di Taranto il vento girerà a maestrale, che sulla mia rotta sarebbe contro. Sarà vero? Nel dubbio sarà bene che arrivi prima. Mea culpa, mi sono attardato nelle braccia di Scilla. E sia. Un’altra navigazione notturna.
Cala il sole e un branco di delfini gioca a infilarsi nelle onde davanti alla prua della mia barca. Mi preparo a un’altra notte in mezzo al mare da solo. Vento in poppa con genoa e randa, ovviamente con la “regolazione demenziale numero due”. Quasi non servirebbe la sveglia ogni venti minuti. Non c’è nessun altro qui in mezzo stanotte.
Ore 6, golfo di Taranto, Denecia naviga tranquillamente a cinque nodi, con circa undici nodi di vento in poppa. Fotografo l’alba, poi mi rimetto sdraiato sulla panca del pozzetto per un’altra quindicina di minuti di sonno. All’improvviso la barca straorza e si sdraia su un fianco. Cado dalla panca. Guardo lo strumento del vento: quaranta nodi. La macchina umana, pur se non più efficiente come un tempo, da uno stato ti torpore e stanchezza si attiva immediatamente, il cuore, nonostante tutto, accelera il flusso del sangue e tutto è pronto per l’emergenza. E’ fantastico. E c’è da chiedersi se il decadimento degli organi, le loro malattie non dipendano in realtà dalla nostra mente.
Chiudo la randa, riduco il genoa e rimango al timone per una decina di miglia con un mare in poppa che si ingrossa sempre di più, e fa correre Denecia a otto nodi. Il vento rimane sui trenta nodi con raffiche di quaranta. Il Vhf trasmette l’avviso di burrasca forte. Grazie, ci sono in mezzo. Ma non ci riuscite a trasmetterlo qualche minuto prima? Appena diminuisce un po’, ventiquattro nodi, riattivo il pilota automatico e mi sdraio esausto sulla panca del pozzetto. Ma dura poco, a dieci miglia da Taranto ricomincia la ginnastica: raffiche, poi cala il vento, poi aumenta il vento, da poppa, di bolina, al traverso... Fino all’ingresso del porto. Ormeggio a mezzogiorno, dopo ventotto ore di navigazione, soltanto a vela.
Vado a Potenza e torno, ci rivediamo qui a Taranto.
A mezzogiorno attracco al marina di Tropea, dopo circa diciotto ore di navigazione. Il pilota automatico Simrad ha funzionato per tutto il tempo. Evviva. La prossima navigazione userò l’altro autopilota, quello nuovo, il Garmin. Per ora mi va di lusso, non mi sembra vero, rispetto all’anno scorso, quando sono dovuto stare da solo giornate intere al timone, perché sia il vecchio Cetrec che il Simrad non ne volevano sapere di funzionare.
All’antico borgo di Tropea, incastrato sull’imponente roccia di tufo a picco sul mare, stanno sparpagliando per strada televisori ovunque, messi nei modi più improbabili, per vedere la partita della nazionale senza lasciare il negozio. L’anziana libraia osserva stupita insieme a me cinque negozianti in piedi, allineati con le spalle al muro, cantare l’inno italiano davanti a un piccolo schermo Lcd, posto su un carrellino al lato opposto del vicolo.
Poi il mio immancabile appuntamento con il Vecchio forno. Fino agli anni Settanta era l’unico a Tropea. I proprietari, i fratelli De Vita, Aldo e Mario, raccontano che nel dopoguerra, dopo che avevano finito di sfornare il pane, diversi compaesani vi portavano le loro pietanze affinché gliele cuocessero, perché molti non avevano la cucina in casa. Anche quando poi l’hanno avuta è continuata la tradizione, più che altro perché i cibi cotti nel forno a legna sono più buoni. Ora è una caratteristica pizzeria, che ha conservato le vecchie sembianze del forno. Oltre alla pizza, la specialità della casa sono le verdure locali cotte al forno a legna, servite con la focaccia come pane. Che meraviglia, un vecchio forno, i vecchi sapori, le vecchie tradizioni. Grazie alla famiglia De Vita che continua a perpetuarle con passione, e mi accoglie sempre con simpatia. Un appuntamento immancabile.
Dopo nove ore di sonno profondo è ora di studiare le carte meteo. Ma il vento forte da sud che fine ha fatto? Mi sono rifugiato qui facendo diciotto ore di navigazione perché sarei rimasto bloccato da un forte vento da sud, e dove sta? Doveva arrivare ieri e invece ieri c’era calma piatta. Sulla carta meteo c’era una macchia rosso scuro per oggi, che vuol dire vento intorno ai trenta nodi. Stamane invece è sparita misteriosamente dalle carte. I casi sono due, o la nostra atmosfera è in tilt, oppure i nostri meteorologi si fanno troppe canne.
Mollo gli ormeggi da Tropea con trenta nodi di raffiche da terra. E’ solo il vento catabatico, quello che scende in accelerata dalle montagne sovrastanti. Uso la tecnica imparata in Grecia. Una cima a poppa a doppino da filare e una legata alla prua della barca a fianco per girarsi. E poi via veloci.
Fuori dal porto trovo una decina di nodi da sud. Alla fine è arrivato. Con ‘solo’ due giorni di ritardo rispetto alle previsioni degli uomini. E ora dicono che dovrebbe girare a maestrale verso la mattinata. Cosa che dovrebbe permettermi di raggiungere Scilla. Sarà vero? Proviamo. Niente. Cambia solo verso metà pomeriggio. Però da sud a sud-sud ovest (verificato da fermo), che non è maestrale. Riesco comunque ad arrivare a Scilla con una bella bolina.
Mi predispongo ad agganciare una boa quando vedo arrivare un gommone degli Arena. E’ Nino. Molto giovane, ma già con una grande esperienza nelle manovre, e soprattutto molto gentile, come tutti loro. Su disposizione dello zio Giovanni mi fa mettere di fianco alla punta del molo dei pescatori. Poi mette la mia ancora sul gommone e gli da fondo una ventina di metri davanti alla prua per scostare un po’ la murata dal molo di cemento. “Così starai sicuro”, mi dice. Perché in caso di maestrale il campo boe non è protetto.
Persone meravigliose gli Arena. L’anno scorso hanno salvato Denecia da un possibile naufragio. Il motore si spense all’uscita dello stretto, gli scogli erano vicini, la corrente mi ci spingeva contro, niente vento per allontanarsi a vela, niente fondale per fermarsi con l’ancora. “Incidit in Scillam qui vult vitare Charybdim”. Ma Giovanni uscì con il gommone e mi spinse fino in porto. Non mi chiese niente, né per il salvataggio, né per essere poi sceso son le bombole a controllare le prese a mare. Solo la boa. Solo trenta euro a notte.
La famiglia Arena, i fratelli Giovanni, Peppe, Rocco, Francesco e Clemente, insieme ai cugini Nino, Rocco e Carmelo, svolgono questa attività da vent’anni, continuando quella che aveva intrapreso il nonno cinquant’anni fa: gestire le boe di ormeggio nel porto di Scilla.
Usano un sistema che potremmo chiamare eco compatibile: ogni anno, ad aprile, sistemano le catenarie sul fondo abbracciandole agli scogli. E a fine settembre, smontano tutto. Vorrebbero migliorare i servizi, ma lo stato non gli viene incontro. Loro comunque si sono dati da fare e hanno messo in piedi diverse attività. Vicino alla roulotte-ufficio dell’ormeggio c’è l’originale chiosco di Clemente, ricavato da una vecchia barca da pesca. E’ quella del padre. Quella con cui ha cresciuto la famiglia. Ora sulla falchetta non passano più le reti da pesca ma i wafel con marmellata di fragole e scaglie di cocco, secondo una ricetta della moglie irlandese di Clemente. In un altro modo la barca di papà Arena continua a provvedere, ora come allora, al sostentamento della famiglia.
E a pochi metri, i cugini Massimo e Peppe hanno un ristorante, Antrois, il più apprezzato di Scilla. Il pesce è quello pescato dal padre Rocco. Più “chilometro zero” di così sarà difficile: le spadare, le tipiche barche per la pesca del pesce spada, sono ormeggiate proprio all’interno del piccolo porticciolo di Scilla. Fiori di zucca ripieni di ricotta, gamberetti e patate. Tortiera di spatole e melanzane. Frittelle di bianchetto. Gamberi impanati al forno. Questi sono solo gli antipasti. Poi pesce spada alla salvia e limone. Un’armonia di sapori di mare. La musica del mare volendo è anche questa.
Da Scilla, per tutto lo stretto di Messina e oltre non ci sono porti né ancoraggi fino a Roccella Ionica. Oltre settanta miglia girando attorno alla punta del piede calabro. La costa calabra, con le sue spiagge bianche, lunghe chilometri, lambite dalla macchia mediterranea, è stupenda. Mi si riempiono gli occhi ogni volta che ci passo. E ogni volta mi si riempie il cuore di rabbia, per il massacro che gli italiani ne han fatto: scheletri di edifici incompiuti e abbandonati, rotaie che squarciano pinete o chiudono l’accesso alle spiagge, borghi antichi circondati da brutte costruzioni, come a sottolineare l’attuale decadenza in contrapposizione con la grandezza delle nostre origini.
Dopo Capo spartivento, lo dice il nome, il vento è cambiato. Ora è in fil di ruota. Con la barca che rolla, per non stressare le attrezzature, adotto la mia “regolazione demenziale numero due”, sperimentata un po’ per caso, un po’ per necessità sulla rotta raccontata in La musica del mare. Non sarà accademicamente corretta, ma funziona, e mi fa giungere a destinazione con una buona andatura.
Dove ormeggio c’è una bella barca con il pozzetto centrale. Dal chiedere che modello è all’essere invitato a cena il passo è breve, come spesso capita tra velisti. Soprattutto quando uno è solo, come me, e sull’altra barca c’è qualcuno che cucina. Nili e Cengiz sono turchi. Lui aveva un cantiere che costruiva barche. Prima di ritirarsi ha preso un progetto di Dick Zaal e ha costruito Vega per fare il giro del mondo con la sua compagna. Fino a dicembre gironzoleranno per il Mediterraneo, Sicilia, Tunisia, Sardegna, Baleari. Poi la traversata dell’Oceano. Sembra l’inizio della storia raccontata da Giuliano Gallo nel suo bellissimo romanzo Aliseo.
Sul loro piatto, nel pozzetto di Vega, c’è un pasticcio a base di carne. Nel mio, essendo vegetariano, una strana verdura che Cengiz mi ha mostrato non cucinata, ma che non sono riuscito a riconoscere. Molto buona, cucinata in modo molto piccante.
Che bello ritrovarsi nel pozzetto di una barca scambiando storie, di mare, di vita. E’ uno degli aspetti più stimolanti dell’andar per mare. Roccella Ionica è un crocevia di tante rotte, con il fascino di un porto in disuso. Ma non più. Francesco al telefono mi aveva preannunciato orgoglioso che è partita le gestione del marina, e che lui ne è il direttore. Non ci sono i corpi morti, ma ora ci sono le docce, il wifi, le colonnine illuminate della luce e dell’acqua.
Mentre mi godo una pigra navigazione di bolina a quattro nodi verso Crotone, rifletto sul fatto che forse dovrei accendere il motore per arrivare con la luce. Rifletto anche sul fatto che per rispettare le tappe e arrivare a Taranto in tempo mi tocca usare il motore più di quel che avrei voluto. Ma se continuassi a vela fino a domani mattina? Denecia va che è una bellezza.
Controllo le previsioni, pur essendo piuttosto approssimative. Oh oh. Domani pomeriggio nel golfo di Taranto il vento girerà a maestrale, che sulla mia rotta sarebbe contro. Sarà vero? Nel dubbio sarà bene che arrivi prima. Mea culpa, mi sono attardato nelle braccia di Scilla. E sia. Un’altra navigazione notturna.
Cala il sole e un branco di delfini gioca a infilarsi nelle onde davanti alla prua della mia barca. Mi preparo a un’altra notte in mezzo al mare da solo. Vento in poppa con genoa e randa, ovviamente con la “regolazione demenziale numero due”. Quasi non servirebbe la sveglia ogni venti minuti. Non c’è nessun altro qui in mezzo stanotte.
Ore 6, golfo di Taranto, Denecia naviga tranquillamente a cinque nodi, con circa undici nodi di vento in poppa. Fotografo l’alba, poi mi rimetto sdraiato sulla panca del pozzetto per un’altra quindicina di minuti di sonno. All’improvviso la barca straorza e si sdraia su un fianco. Cado dalla panca. Guardo lo strumento del vento: quaranta nodi. La macchina umana, pur se non più efficiente come un tempo, da uno stato ti torpore e stanchezza si attiva immediatamente, il cuore, nonostante tutto, accelera il flusso del sangue e tutto è pronto per l’emergenza. E’ fantastico. E c’è da chiedersi se il decadimento degli organi, le loro malattie non dipendano in realtà dalla nostra mente.
Chiudo la randa, riduco il genoa e rimango al timone per una decina di miglia con un mare in poppa che si ingrossa sempre di più, e fa correre Denecia a otto nodi. Il vento rimane sui trenta nodi con raffiche di quaranta. Il Vhf trasmette l’avviso di burrasca forte. Grazie, ci sono in mezzo. Ma non ci riuscite a trasmetterlo qualche minuto prima? Appena diminuisce un po’, ventiquattro nodi, riattivo il pilota automatico e mi sdraio esausto sulla panca del pozzetto. Ma dura poco, a dieci miglia da Taranto ricomincia la ginnastica: raffiche, poi cala il vento, poi aumenta il vento, da poppa, di bolina, al traverso... Fino all’ingresso del porto. Ormeggio a mezzogiorno, dopo ventotto ore di navigazione, soltanto a vela.
Vado a Potenza e torno, ci rivediamo qui a Taranto.
Agostino (non verificato)
rsoldatini