Storia | Regata > Coppa America

02/02/2011 - 19:26

Editoriale - Perche' alcuni commentatori continuano a sparare sulla 34ma Coppa America?

A che gioco
giochiamo?

Perché alcuni commentatori continuano a sparare sulla 34ma Coppa America? Prevenuti, scettici, cinici, a caccia di gossip al negativo. Quanti danni stanno facendo gli "sfascisti" della vela. E perché dovrebbero smetterla. Molto meglio idealisti che cinici: il futuro è dei primi
 
L'America's Cup numero 34 ha un Protocollo, annunciato, condiviso e infine presentato a tutti; ha regole di classe altrettanto studiate e alla fine rese di pubblico dominio; ha programmi, date e calendari noti ormai da tempo; e ha una location che sfida ogni dubbio da parte di qualsiasi velista (e non): la baia di San Francisco. Tra luglio e settembre del 2013 la storia della vela sarà scritta lì, in quel lembo di California, in quel tratto di oceano che scivola sotto al rosso Golden Gate. E' lì che passerà la storia di questo nostro sport. Non altrove. L'orologio - che non si è mai fermato - punta su quella data.
 
Eppure, incredibilmente, c'è una piccola ma assatanata fetta di commentatori media che prosegue imperterrita in una sistematica demolizione della 34ma Coppa America. Con costanza, come un ritornello, con una ripetitività di concetti che annoia. Il nucleo di questo arroccamento ideologico è in Italia, fa capo a un paio di siti web. E questo lo rende ancora più inconcepibile, gratuito, dannoso. L'Italia è il paese che forse ha creduto di più nella Coppa America nell'ultimo decennio (Luna Rossa, Mascalzone Latino, +39: sei sfide nelle ultime edizioni) e questa volta si presenta persino con il ruolo di Challenger of record (Club Nautico Roma e Mascalzone Latino). Che senso ha il tiro alla Coppa di certi commentatori?
 
Hanno cominciato con il dare ampio risalto, con malcelata soddisfazione, agli annunci delle "rinunce" di TeamOrigin, Team Germany e Alinghi. Come se fossero notizie. Da quando in qua la Coppa America prevede iscrizioni? Chi vuole, chi ha la forza, presenta una sfida, e lo annuncia. Chi non ce la fa, semplicemente non partecipa, e zitto. Non è una notizia perché non è una "rinuncia".
 
Poi hanno proseguito manifestando sempre enorme scetticismo su qualunque novità, persino sui rumors, che arrivavano dal defender, anche quando questo ha riunito intorno a un tavolo designer e produttori tv per studiare insieme la barca e i formati più spettacolari, per offrire con la Coppa America il meglio della vela del terzo millennio. E quando è uscita l'idea del catamarano hanno nicchiato, da cinici consumati, che il match race con i cat non si fa, non viene bene. Quando è stata annunciata la wingsail, l'ala rigida, hanno spocchiosamente sentenziato che questa soluzione dava un vantaggio enorme al defender per via della sua precedente esperienza con il trimarano di Valencia 2010 (niente di più sbagliato concettualmente: la wingsail è pionierismo puro, ed è un campo dove c'è ancora tutto da inventare, e infatti si sta inventando. E sapete dove? In Italia. E sapete per chi? Per i kiwi...).
 
Quando i francesi hanno annunciato la sfida di Aleph (Bertrand Pacè) e prima ancora il progetto dei fratelli Peyron, ovvero quando la nazione-guida della vela sui multiscafi è scesa pesantemente in campo, hanno glissato, infastiditi. Hanno invece pigiato pesante sull'acceleratore, e continuano a farlo, nel denunciare i costi troppo alti dell'AC72, e in generale di una sfida di America's Cup. Da quando in qua una sfida alla Coppa è low-cost? Leggetevi la storia e guardate quanto ha speso Raul Gardini per vincere la Louis Vuitton Cup del 1992 e arrivare a un passo dalla Coppa con Il Moro di Venezia. E chiedete a Patrizio Bertelli (che oggi costoro vellicano come un alfiere dell'anti-Coppa - proprio lui, pronto a tutto per la Coppa, e vedrete pronto a tornare alla prima occasione - perché tiene Luna Rossa fuori dal giro che conta, relegata alle belle scampagnate con gli Extreme 40 e prima con i TP52) quanto ha investito, credendoci follemente, per vincere la Louis Vuitton Cup nel 2000 e conquistare Auckland e gli aucklandiani, oltre a milioni di italiani.
 
E ancora, in queste settimane che ci avvicinano al 31 marzo, scadenza per presentare le sfide, i commentatori che hanno deciso di fare frittelle dell'America's Cup, ovvero del loro stesso pane, se la ridono sotto i baffi a smontare la teoria di Russell Coutts, che in un'intervista dichiara di attendersi almeno 8 sfide (visto che siamo già a cinque, non mi pare una esagerazione), continuano a fare titoli sulla Coppa che finiscono con "ma...", oppure titoli che finiscono con un interrogativo (da scuola di giornalismo): "ma quanti saranno gli sfidanti?", "ma rischia di restare da solo?", e addirittura incitano i lettori a intervenire, ma si: diamo tutti un colpetto alla Coppa, che fa trend.
 
Naturalmente ghiotti di gossip al contrario, questi commenti si cibano delle difficoltà - oggettive, congiunturali - di molti team e potenziali consorzi (e persino di sfide già presentate) a trovare risorse da sponsor. Come se gli sponsor non si trovassero per "colpa" della Coppa America. Come se una "coppetta" più abbordabile fosse una soluzione, e facesse bene alla vela. Come giudicare la famelica insistenza (di commenti italiani!) nel dare dignità di notizia - tutta costruita intorno a un paio di dichiarazioni raccolte in banchina (ancora da scuola di giornalismo) - alle speculazioni secondo le quali il challenger of record (italiano!) sarebbe sul punto di decadere dal ruolo a beneficio di Artemis (Svezia, Paul Cayard)?
 
Persino, ed è la cosa più triste, questi ineffabili sfascisti della vela sono pronti con le loro lenti di ingrandimento a ogni minimo difetto, a ogni piccola avaria, a ogni manovra malriuscita del prototipo di catamarano AC45. Vergognoso. C'è una barca splendida, che vola nell'agorà della vela mondiale - l'Hauraki Gulf - in mezzo a derive, altri cat, scafi d'epoca, e fra le ochette di 25 nodi di vento, con scritto sulle prue "America's Cup", e mostrando sul code zero il simbolo che da solo vale tre quarti di questo sport, la Coppa delle Cento Ghinee nella sua ultima e più attuale declinazione, con a bordo campioni simbolo per migliaia di giovani che della vela saranno il domani, e gli anti-coppa sono solo pronti a coglierne il minimo fallo. Pretestuosi. Prevenuti. Cinici. Ma perché?
 
Amici miei, dovete smetterla. Perché il vostro, il nostro ruolo è importante. Perché armatori, velisti, tycoon, media e appassionati ascoltano anche la vostra, la nostra voce. Perché la vela internazionale ha nell'America's Cup un suo punto di riferimento, e questo punto di riferimento si è sempre basato sulla lucida follia di grandi uomini e grandi progetti, che tutto hanno guardato fuorché i costi. Perché se muore la Coppa America se ne va pure la vela che conta, e resteremo a galleggiare nell'anonimato. Perché a metà marzo veleggerà un AC45 con la scritta Mascalzone Latino e la bandiera italiana e sopra un ragazzo di Palermo che ha fatto tre Olimpiadi con Laser, 49er e Star. Perché, alla fine, è più bello lasciarsi andare, credere ai sogni, dire che la Coppa America 2013 a San Francisco con macchine volanti di 72 piedi ad ala rigida sarà l'apoteosi dello yachting moderno, e noi vogliamo viverlo e farne la bandiera sotto la quale migliaia di ragazzini il week-end successivo isseranno una veletta di Optimist. Costi quel che costi. Meglio, molto meglio idealisti che cinici. Il futuro è dei primi. Crediamo (e facciamo credere) nel futuro della vela.
 
 
E GUARDATE IL VIDEO DEL CATAMARANO AC45 NELL'HAURAKI GULF CON 25 NODI DI VENTO A 20 NODI DI VELOCITA'
 
James Spithill, il più giovane timoniere a conquistare l'America's Cup, descrive le sensazioni a bordo della macchina volante, il prototipo per America's Cup World Series e futura America's Cup Youth: "Fantastic!" E Murray Jones, il kiwi vincitore di 4 America's Cup con New Zealand e Alinghi, che aiuta a "domare" il cat a terra, tirando una cima come un qualsiasi marinaio. E' il mondo della 34ma America's Cup. Alla faccia di tutti gli sfascisti.
 

Commenti

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