PROFILO

24/11/2014 - 20:00

Dall’Egeo all’Adriatico, in rotta per la Barcolana: la Croazia (I parte)

Quando Denecia arriva a Dubrovnik si apre il sipario sul palcoscenico del porto vecchio.

Proseguo la risalita della costa orientale dell’Adriatico in rotta per Trieste, per partecipare alla Barcolana. Uscito dalle Bocche di Cattaro, in Montenegro, mi lancio alla scoperta della Croazia, con molta curiosità, soprattutto a causa degli avvertimenti che molte persone mi han dato su questo paese.
 
Cavtat (Ragusa Vecchia) 
Dalle Bocche di Cattaro, in Montenegro, potrei fare rotta direttamente su Dubrovnik, ma non posso: devo fare le pratiche d’ingresso a Cavtat. Ormeggio alla dogana. Mi fanno pagare pagare tredici euro solo per dar volta alle cime. Comincia lo spennamento del ‘pollo’ diportista. Una volta svolte le pratiche d’ingresso, qualora dovessi decidere di rimanere qui, dovrei spostarmi di qualche metro, e pagare settanta euro per una notte. In Croazia con i prezzi dei porti si sono impazziti come in Italia. Tuttavia non capisco perché i velisti italiani gridino allo scandalo per questo paese e non protestino per il loro. Tutti mi han messo in guardia sui costi dei marina, sulla scortesia dei croati, sulla tassa di navigazione, e sulla richiesta di documenti che spesso son difficili da recuperare. Entro quindi con curiosità nel primo ufficio. Ma rimango sorpreso dalla cortesia degli ufficiali. Forse sarà anche per il sorriso che sfoggio entrando. Per la mia barca la “vignette”, la tassa che si deve pagare per navigare nelle loro acque, costa centocinquanta euro per quindici giorni. La metà che in Montenegro. Tutta l’operazione dura meno di mezz’ora. Faccio in tempo ad arrivare a Dubrovnik prima che faccia buio.

Dubrovnik (Ragusa)
Arrivo all’imbrunire e le luci del borgo medievale sono accese. Entro nel porto, pur sapendo che non è possibile attraccare, solo per immaginare cosa provavano i dogi, nel periodo in cui han governato la città. Poi lascio a malincuore questo palcoscenico con una delle più belle scenografie mai viste. Devo ormeggiare in platea, fuori dalle mura, dando fondo all’ancora. E qui, da spettatore, mi godo la fortificazione, le torri e i campanili illuminati, mentre ceno in pozzetto. 

Tante meraviglie nel giro di soli tre giorni, nel giro di sole trenta miglia. E sono tutte meraviglie del passato. Sia i montenegrini che i croati stanno avendo cura del nostro passato. E mi chiedo perché non siamo più in grado di creare quell’armonia. Al contrario, nella nostra epoca, generiamo quasi solo bruttura. Qualche volta distruggendo la bellezza. Questi popoli ora valorizzano le opere dei nostri veneziani, sfruttandole come fonte di guadagno, ma dopo averle distrutte, in guerre fraticide. Incoraggiate, fomentate da altri stati. I soliti. Per quel perverso meccanismo finanziario che regola il mondo. Strage di uomini di cui ora qui non rimane traccia. Morti in nome di inni nazionali, di bandiere, di slogan religiosi. Insanguinati simboli di falsità.

La barca all’ancora rolla parecchio, ma è un buon prezzo da pagare per godersi lo spettacolo della città medievale dal mare. La mattina però decido di andare al marina. Perché con questo rollio salire sulla canoa con lo zaino e la macchina fotografica è un rischio, inoltre le nuvole sono cariche di pioggia, e tra non molto la scaricheranno. L’Aci Marina è a qualche chilometro da Dubrovnik, ed è piuttosto caro, 117 euro. Ma non scordiamoci che a Messina, che non è una bella città come questa, e il marina non è protetto, si paga la stessa cifra. Oltre all’Aci Marina c’è anche uno yacht club, che i portolani sconsigliano: quelli del club sono scortesi e non c’è mai posto per i diportisti di passaggio. Ma io sto imparando a tracciare un mio sentiero, a non seguire quello degli altri, come dicono i buddisti.

E faccio bene: allo yacht club JK Orsan ci sono sei posti per le barche ospiti, costa un poco meno dell’altro, 105 euro, è più vicino alla città vecchia rispetto al marina, e sono tutti molto gentili. Quando poi scoprono che sono italiano mi sorridono e provano a dire qualche parola nella mia lingua. Inoltre il club è molto accogliente, con un bel ristorante dove pare si mangi molto bene. Prendo l’autobus numero sei e in pochi minuti sono davanti all’ingresso della città vecchia. Quasi non si riesce a passare, tante sono le persone, migliaia, scaricate da tre navi-città della Costa Crociere. Ma tutto questo andirivieni e la pioggia non offuscano la bellezza della città medievale, rimasta come a quell’epoca tutta all’interno delle mura difensive. E sulle mura salgo per farne il giro completo. Da qui si vede il borgo da tutte le angolazioni e il mare. Si vede anche qualche segno della guerra. Due isolati non sono stati ricostruiti, forse perché ne era rimasto ben poco. E sono stati lasciati così. Un metro o due d’altezza di muro a delimitare i confini di quelle che erano le case di chi probabilmente non c’è più. Ma le guerre portano ‘benessere’, lo si vede bene qui ora. Probabilmente Dubrovnik non aveva più conosciuto un ‘restyling’ così ricco dai tempi della repubblica veneziana. Il porto invece visto da terra non è così emozionante come lo è giungendoci dal mare.

Entrare in una città con una barca a vela è tutta un’altra cosa. Così come a Istanbul, come a Napoli. Vorrei vedere Dubrovnik anche da un’altra prospettiva, dall’alto, ma la teleferica oggi non è in funzione, a causa del cattivo tempo. Così torno allo yacht club per cenare. Di sicuro non sarà una cucina turistica come quella dei ristoranti che aspettano i ‘polli’ della Costa Crociere. Infatti. Mangio uno dei migliori risotti ai frutti di mare della mia vita. Una buona combinazione di verdure lesse, tipica della Croazia: bietola e patate lesse. Infine un cream caramel, fatto a torta e servito tagliato a fette. E il prezzo? Normale per la media italiana, ma forse anche un po’ meno: venticinque euro.

Mljet (Meleda)
Alla baia a sud ovest di Mljet devo rinunciare: il sole è coperto da grossi nuvoloni, che prima o poi scaricheranno il loro carico d’acqua. Inoltre nella baia entra un po’ di mare. Decido di andare a quella a nord, Pomena. Quindi navigo in vista di tutta la costa ovest dell’isola. Venti miglia. Una costa selvaggia, senza alcun segno di vita. Nessuna costruzione. Ma neanche una spiaggia. La conformazione è quella vista in Albania e in Montenegro. Rilievi ricoperti da una vegetazione lussureggiante che arriva a lambire la scogliera. Posto particolare Pomena.

Quando arrivo, sul molo ci sono già i camerieri di ciascun ristorante pronti con in mano la drappa del corpo morto, come delle prostitute che aspettano di vedere quale di loro verrà scelta. Dal molo difronte proviene una musica tradizionale, suonata da una fisarmonica, e cantata da un gruppo di croati allegri. Sembrano quasi canti montanari. La musica proviene da uno dei grossi caicchi a due piani ormeggiati sul molo difronte. Sono uno a fianco all’altro, su più file, tanto da togliere la vista della baia quando si arriva. Poi tutto a un tratto arriva la “boom-boom-music”. E scopro che i caicchi sono adibiti ad albergo, affiancati in modo da essere comunicanti tra loro. Il ponte superiore di uno è adibito discoteca, con tanto di luci psichedeliche. E’ affollata da una banda di ragazzi inglesi scalmanati, che urlano come dannati. Credono che si stanno divertendo. E invece stanno solo diventando un po’ più stupidi, con i neuroni frantumati dai decibel e dall’alcol. Domani fuga da questa baia. Paradisiaca di giorno, infernale di notte. Calipso, che tenne prigioniero Ulisse su quest’isola per sette anni, ha lasciato il posto alla “boom-boom-music”. Più efficace. Chi si lascia adescare viene tenuto prigioniero molto più a lungo. A volte per sempre.

Korcula (Curzola)
A causa del mal tempo, dovrò rinunciare all’esplorazione delle baie e fare rotta solo per i porti delle città antiche. Almeno potrò vedere qualcosa, pur sotto la pioggia. Arrivo in vista della città di Korcula nel primo pomeriggio. Questi borghi medievali hanno tutti una composizione urbanistica armonica ed equilibrata. Lo si può apprezzare bene solo venendo dal mare.

Scelgo di ormeggiare alla banchina comunale: costa meno dell’ACI marina ed è proprio sotto al borgo. Salgo la scalinata che conduce all’ingresso della città. La porta è rimasta quasi isolata: le mura difensive non esistono più, sono state abbattute, per dare al borgo la vista del mare, per ‘liberarlo’, e aprirlo al mondo. Al loro posto una bella passeggiata tutt’intorno, molto gradevole. Nei vicoli ciò che salta più agli occhi è il proliferare di negozi di souvenir del museo dedicato a Marco Polo, che però è soltanto un percorso virtuale nello stile dei documentari di Piero Angela. Che furbi questi croati, hanno messo su un’industria attorno all’esploratore italiano che non si sa neanche se sia mai passato da qui. Di reale c’è solo la casa della sua famiglia. E’ rimasta in piedi la torre e la facciata, senza niente dietro. Un altro segno della guerra. Una guerra di confini arrivata alla porta della famiglia di un grande uomo che quei confini ha invece cercato di abbattere.

Dopo cena, ai caffè di Korcula c’è musica dal vivo. Piccoli complessi di due-tre persone. Musica gradevole, tenuta a un volume discreto. Allora si può. Mi fermo a quello con una ragazza che canta e suona la chitarra e un ragazzo che suona sia la chitarra che la tastiera. Molto bravi. Concludono con una bellissima improvvisazione jazz, alle undici e trenta. Per non dare fastidio a chi vuole dormire. Allora si può. E si dorme bene nel porto di Korcula, ma alle tre di notte, non so perché, sento di dovermi svegliare. E mi costa molto, perché ero in un bel sonno profondo.

Poco dopo comincio a sentire un po’ di rollio e beccheggio. Aumenta. Esco fuori e in cinque minuti si scatena una burrasca improvvisa. Le tre barche alla sinistra di Denecia urtano la banchina, poi mettono il motore al massimo per riuscire a scortarsene un po’. Quella a destra finisce con la prua sulla mia barca, ma per fortuna la vedo in tempo e riesco a trattenerla fino a che non la legano al grande caicco vicino. La mia ancora tiene bene. Ho dato molta catena, cinque volte il fondale, come insegnano i greci. Rimango un po’ in pozzetto, poi dopo un’oretta si placa tutto e torno a dormire. Incredibile come i nostri sensi ci avvertano quando sta per accadere qualcosa. Sono gli stessi degli animali. I sensi della natura. Che l’uomo sta facendo di tutto per assopire, per perdere. Con le discoteche, con l’alcol, la tecnologia, e con ogni altro genere di droga.

Hvar (Lesina)
All’ingresso del porto di Hvar mi viene incontro una motovedetta della polizia portuale: “The port is full”. Peccato, scatto qualche foto prima di fare rotta per Split. Mentre sto per uscire però vedo una barca a vela che molla il corpo morto in acqua. Sta salpando. Mi infilo al suo posto e vado subito all’esplorazione della città. Per prima cosa salgo in cima alla rocca dov’è il castello veneziano. La vista del borgo medievale e del golfo è di una bellezza commovente. Ogni giorno è una nuova scoperta. Un bellezza dietro l’altra.

Ma perché l’uomo da sempre è alla ricerca della bellezza? Perché commuove? E quali saranno gli insegnamenti che verranno dalle bellezze che incontro sulla mia rotta? Ma soprattutto cos’è la bellezza? Ti dicono che l’uomo si è distinto dagli animali per l’intelligenza, e quindi anche per il saper riconoscere la bellezza. Una bellezza creata dagli uomini, in questo caso. Ma ci si commuove anche per un tramonto. E chi ci dice che gli animali non si commuovano per i colori di cui il sole tinge il cielo al suo calare. A Santorini ho visto un cane su un tetto che non toglieva lo sguardo dal sole. Solo quando è scomparso in mare è sceso in strada, così come hanno fatto altre centinaia di persone, com’è tradizione su quell’isola. Probabilmente si saranno commossi anche i dinosauri guardando un tramonto, che chissà com’era a quei tempi. E allora l’uomo rispetto ai dinosauri cosa è riuscito a capire in più di questa nostra capacità di commuoverci difronte alla bellezza?

Oltre alla fortezza, ai bei palazzi in stile veneziano, alle chiese, e a una bellissima passeggiata lungomare in mezzo alla natura con panchine e giardini, a Hvar c’è da vedere anche un piccolissimo teatro. E’ tutto in legno, ed è contenuto all’interno del palazzo dell’arsenale. Un gioiello del Seicento. Le strutture non sono più in grado di sorreggere il peso del pubblico, così per tornare a ospitare gli spettacoli attende un radicale restauro.

Split (Spalato)
Scapolata la punta a nord ovest dell’isola di Hvar mi vengono incontro diciotto nodi di vento. Denecia di bolina solca le onde a otto nodi. Supero un Bavaria 45 nuovo modello. Uno di quelli che quando c’è poco vento, essendo leggeri, vanno più veloci. Che soddisfazione, da solo, sottovento, con una casa di diciotto tonnellate come barca e la carena sporca. Ben presto Denecia lascia il Bavaria all’orizzonte, e raggiunge anche le altre barche che erano avanti sulla sua stessa rotta.

Con questa andatura arrivo molto prima del previsto, giusto in tempo per evitare il temporale. Split è la prima città, tra quelle incontrate fino a ora, che dal mare non dà un senso di armonia, perché nel tempo è stata snaturata. Mi dirigo alla banchina comunale, che i portolani dicono esser gratuita. Ma soprattutto è proprio sotto al palazzo Diocleziano. E a me piace molto posizionare Denecia in un’immagine da cartolina. Ma quelli della polizia portuale mi dicono che non si può, devo andare all’ACI marina. Cento euro. Furbacchioni. Come in Italia. A S.Maria di Leuca c’è una lunghissima banchina comunale, sempre vuota, dove chi prova a ormeggiare viene cacciato dalla capitaneria. Ti obbligano a pagare il marina. Mafiosi. Lì come qui.

Sono il primo a entrare, i pontili per i posti in transito sono vuoti. Poi una barca alla volta si riempie. Dopodiché arriva l’acquazzone. Aspetto che passi. Un’oretta e poi posso raggiungere la città in bicicletta. Quello che mi ha spinto a venire a Hvar è il palazzo di Diocleziano. Ma chiamarlo palazzo non rende l’idea. All’origine era un complesso residenziale, contornato da mura difensive e sedici torri, che l’imperatore si era fatto costruire per la sua ‘pensione’. Poi la città-palazzo ha continuato a vivere nelle epoche seguenti, perché al suo interno ha abitato la gente di Split. Così si possono vedere i segni del tempo, sovrapposti all’epoca romana.

Il tempo, che cancella tutto, anche nel giro di pochi anni: qui sono stato nel 1987, quando c’era ancora la Yugoslavia, per una serie di concerti, ma non ricordo niente. Neanche riguardando le foto dell’album, che avendo la casa appresso posso consultare subito, appena tornato in barca. Nelle foto si vede che il palazzo non era ancora stato ripulito. E poi c’è Monstar, quello sì che lo ricordo. Ero rimasto affascinato dalla storia degli abitanti di due paesi divisi dal fiume. Con le loro forze avevano costruito un ponte per congiungersi. Un ponte bellissimo, carico di significati. Ebbene quel ponte durante il conflitto tra croati e serbi è stato deliberatamente abbattuto. Ricordo che allora, impregnato di ideali beethoveniani, rimasi sconvolto. Ora è stato ricostruito. Ma, confrontando le foto pubblicitarie di oggi con quelle mie, sa di finto. Anche il paesino, tutto restaurato e curato, ha perso un po’ di quel fascino orientale che aveva allora. Così come penso abbiano perso la loro identità anche i borghi medievali che ho visitato fin qui, tirati a lustro per i turisti. Vorrei averli potuti vedere prima. Stasera rimango in compagnia del mio album delle foto. Non esco. Fa piuttosto freddo, e sono un po’ stanco.

Skradin  (Scardona)
Trentotto miglia da Hvar all’ingresso del fiordo-lago-fiume di Sibenik. Non so come chiamarlo. Perché inizia come un fiordo, ma in realtà è una foce dove confluiscono più fiumi. Risalendola per una ventina di chilometri si incontrano passaggi stretti, come quelli di un fiume appunto, che poi si aprono in grandi laghi. Si passano due ponti stradali molto alti. Poi di nuovo stretti passaggi, di nuovo laghi. E infine un piccolo paese con un porto, Skradin, sulla riva del fiume. Oltre non si può andare, a causa di un ponte non sufficientemente alto per far passare una barca a vela. Ma soprattutto perché inizia il parco nazionale. Il paesaggio è quello di un laghetto di montagna. Ma diverso da quello delle Bocche di Cattaro. Qui i rilievi sono più dolci, direi collinari. Il porto è frequentato più da cigni che da esseri umani, sebbene le barche siano tante, ma la maggior parte sono stanziali.

Ci sono due possibilità per ormeggiare, l’immancabile ACI marina, un po’ lontano dal paese, dove si paga ottanta euro, e la banchina comunale, nel paese, dove si paga quarantacinque euro. Scelgo questa. “Ma lì non ci sono le facilities”, mi grida l’ormeggiatore del marina. E che ci faccio io con le facilities? La doccia ce l’ho in barca, e anche comoda. Senza dovermi portare prodotti, vestiti e asciugamani, come ho visto che invece qui in Croazia fanno tutti. Inoltre alla banchina comunale c’è sia l’allaccio della corrente elettrica che dell’acqua. Skradin è la base di partenza per la cascata di Krka, all’interno del parco nazionale. Si prende il battello per andarla a visitare. Poi la si risale a piedi, ci si passa lateralmente e in mezzo, con ponticelli e lunghi percorsi di legno sospesi sulle cascate, camminamenti e terrazze lastricate di pietre. Poi ci sono bar e ristoranti con l'acqua che gli precipita a fianco. E un complesso di casette in mezzo alle rapide, ora adibite a salette museo sulle tecniche antiche di sfruttamento dell’energia idrica. Tutto molto curato e ben fatto.

I croati hanno investito parecchi soldi nel turismo, e i risultati si vedono. Normalmente è possibile fare il bagno nelle piscine naturali che ci sono lungo il percorso, ma oggi no, per l’eccessiva quantità d’acqua. Meglio così, lo scenario è sicuramente più suggestivo. Per pranzo non resisto alla tentazione di mangiare al ristorante in mezzo alla cascata. Lo so, potrebbe esser un ristorante turistico. In Italia in un posto così si spenderebbe tanto e si mangerebbe male. Invece qui no. Orata fresca, proveniente dai tanti allevamenti che ho visto attraversando il fiordo, molto saporita, con contorno di patatine fritte. Solo tredici euro. Poi continuo il percorso, ripassando anche dove sono già stato.

E camminando non mi lasciano le melodie della Sinfonia Pastorale di Beethoven. Ma anche del Canone di Pachelbel, non so perché, forse per l’accelerazione dell’acqua che fa pensare a quel crescendo. O forse per la maestosità barocca dei “giochi d’acqua” che crea la cascata. In effetti mi chiedo il senso di opere, come quella voluta dall’arcivescovo di Salisburgo, che riproducono artificialmente ciò che in natura è infinitamente più bello. E per giunta gratis. Non riesco mai a prescindere dall’idea che la gente moriva di fame quando quei ‘mecenati’ si divertivano ad abbellire le loro proprietà. E alla fine del percorso, che torna al punto di partenza, mi verrebbe voglia di fare un altro giro, come i bambini che corrono alle scalette per buttarsi di nuovo giù dallo scivolo.
 

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