PROFILO

26/06/2014 - 11:03

Da Napoli a Tropea, in rotta per l’Egeo, alla ricerca del vento

una navigazione notturna in solitario

Un altro diario di bordo. Un racconto della mia navigazione in solitario di sei mesi. E’ il quarto. Il primo l’ho scritto su richiesta degli amici nel 2011, quando sono salpato la prima volta, da Port Napoléon in rotta per l’oriente. Ne è nato un libro, “La musica del mare”. Da allora ho percorso da solo più di diecimila miglia, e ho continuato a scrivere diari di bordo.
 

 
Mollo le cime di ormeggio dal molo del Borgo Marinari a Napoli. Non sono le mie cime, quelle che legherò e scioglierò ogni volta che arriverò e partirò da un'isola nei prossimi mesi. Sono le cime del porto. Quelle di casa mia. Eh sì, perché io in barca ci abito. Rimarranno lì ad aspettarmi, per sei lunghi mesi.

Mollo le cime che mi legano stretto stretto ai miei amici. Ma in realtà le allento solo un po. Una lunga e resistente cima invisibile rimarrà sempre legata a loro. Ovunque andremo io e Denecia, la mia barca-casa.
Mollo le cime sapendo che ovunque andrò a legarle per un po’ ci sarà qualcosa da scoprire, nei luoghi, nelle persone, in me stesso.

Mollo le cime con il cuore gonfio di emozioni. Ma anche con un po’ di malinconia, quella che provo ogni volta che saluto gli amici, un po’ addolcita dalla loro presenza all’ormai tradizionale “festa sul molo per la partenza”.
Vedo Napoli sfilare di poppa. E’ una giornata limpida. Il Vesuvio si vede nitidamente. E’ bellissimo. Sono di nuovo in navigazione. E’ bellissimo.

I rumori della “boom-boom-music” si sciolgono nella scia di Denecia. Ieri avrei voluto dormire per partire riposato, invece sono stato ferito da un fuoco incrociato di ‘musiche’ ad altissimo volume, provenienti dal Club Nautico, dal Club Italia, dalla piazzetta del Borgo. Si sommavano in un’infernale cacofonia all’interno della mia barca. Ecco, questo no, questo non mi mancherà di Napoli, dell’Italia.

Vorrei provare a passare da quel frastuono senza passaggi intermedi a questa pace: probabilmente mi sembrerebbe silenzio, anche se silenzio non è. Quando si vive sulla terra ferma, abituati al rumore quotidiano che ci avvolge senza soluzione di continuità, delle macchine, della “boom boom music”, della gente che parla, scambiamo per silenzio quello che è il suono della natura. Ma è difficile che in natura ci sia davvero silenzio.
Lo scafo che solca il mare, lo scricchiolio delle manovre, il vento che gonfia le vele. Una bella brezza di dodici nodi lancia Denecia di bolina a una velocità di sei nodi. Poi, le ultime tre miglia, il vento cala. Quindi mi tocca aiutare le vele con un po’ di motore. Ed ecco infranta l’armonia. Il rumore meccanico copre la musica del mare. Pazienza.

Mi sono riproposto di andare solo a vela anche in Italia, dove il vento non è così generoso e costante come nell’Egeo (lì uso il motore solo per entrare in porto). Che importa se ci metterò un po’ di più ad arrivare? Tempo ne ho. Mi faccio prendere spesso dalla nostalgia per quelle epoche passate in cui la vela aveva un carattere più romantico. Certo, per alcune cose non posso farci niente, ma non usare il motore questo sì dipende da me. E allora dai, da domani vediamo cosa si potrà fare.

Intanto alla boa mi godo all’imbrunire questo piccolo paesino della Costiera Amalfitana, con le luci delle poche case che si riflettono nell’acqua, che a riva, vista dalla terrazza del ristorante, pare essere trasparente. Ma al risveglio, svanito l’incanto delle luci del crepuscolo, escono fuori le magagne dei paesi di mare italiani. Le solite.

Le solite palazzine antiestetiche, qui adibite ad alberghi, costruite accanto alle casette caratteristiche mediterranee senza alcun rispetto paesaggistico. E l’acqua è sporca.

Faccio colazione con le leccornie che mi hanno portato gli amici per la partenza, reggendo di volta in volta la tazza del caffè d’orzo, la coppetta con i cereali, la coppetta con lo yogurt, il bicchiere con il succo di frutta, il piattino con la marmellata e la ricotta spalmati su una fetta di pancarrè. Vanno a spasso qua e là sul tavolo per la forte risacca. Quella che ogni tanto mi ha svegliato stanotte. Una risacca alimentata anche dalle barche a motore che passano sempre a gran velocità. Croce e delizia dello stare alla boa in Costiera.
E il vento non arriva.

Un tempo i marinai sarebbero rimasti all’ancora qui, anche con questa risacca, fino all’arrivo del vento. Giorni magari. E va bene, lo ammetto, sono figlio della mia epoca: a mezzogiorno accendo il motore e mi allontano da questo posto, dove non si può fare neanche un bagno per rinfrescarsi, almeno che non ci si voglia immergere nella schiuma.

In mezzo al golfo di Salerno incontro diverse barche a vela, procedono tutte a motore, con la randa alzata, come me. Abbasso gli occhi. Mi vergogno per aver ceduto a questo modo moderno di navigare.
Rispetto al passato, per l’aspetto economico, indipendentemente dalla nostra determinazione, non c’è comunque nulla da fare. Oggi i porti si pagano, tutti, e tanto. Ecco che quindi aspettare il vento stando in porto alla fine costerebbe di più che consumare qualche litro di gasolio per andare a motore. Niente da fare, siamo imprigionati in quest’epoca.

Sono pochi gli approdi dove non sono arrivati i tentacoli del profitto. E quei pochi non resistono molto: a S.Marco di Castellabate l’anno scorso si poteva ancora attraccare liberamente. Non più. Al mio arrivo scorgo un bel posticino dove ormeggiarmi all’inglese. Appena mi ci appoggio arriva un tipo che ha preso in gestione le banchine comunali: cinquanta euro. Contratto. “Se non le serve acqua e luce posso farle quaranta”. Gli sfoggio il mio sorriso: “Facciamo trenta?”. Sorride anche lui. “Va bene”.

Salgo la ripida e lunga salita per arrivare a Castellabate con la biciclettina elettrica. L’ho fatto anche l’anno scorso. Ma fa sempre piacere rivedere questo grazioso paesino, reso celebre, e un po’ troppo turistico, dal film Benvenuti al sud. Mentre sto seduto sul muretto osservando la piazzetta ricevo una telefonata da Valeria e Marco, gli amici di Livorno. “Dove sei?”. “A Castellabate”. “E che ci fai a Castellabate? Noi stiamo guardando ora la poppa della tua barca a S.Marco”. Coincidenze.

Vorrei rimanere un giorno in più a Castellabate, ma stamane guardo le cartine meteo di Lamma e scopro che da domani, martedì, comincerà a soffiare vento da sud, fino a mercoledì sera. Oggi e domani invece c’è vento a favore per chi, come me, è diretto allo Stretto. Allora decido di portarmi il più vicino possibile all’imboccatura. Peccato, avrei voluto passare da Maratea. “Vai dove ti porta il vento”. La vela è una metafora della vita. Inutile ostinarsi a seguire una rotta se il vento ti suggerisce di andare altrove.

Navigando di notte posso arrivare alle Eolie o a Tropea. Luoghi dove è piacevole rimanere in attesa del vento favorevole. Ma a Tropea c’è un must. Una vecchina del nord si è trasferita qui e ha aperto una libreria. Poco frequentata dalla massa, rappresenta per i meno distratti una boccata di ossigeno in mezzo ai “giganti della montagna”. L’ultima volta che ci son passato le avevo promesso di passare una volta pubblicato il libro. Il vento a volte capisce le ragioni del cuore.

Rotta 150°, centodieci miglia, vento al traverso. Circa diciotto ore di navigazione. Dovrei arrivare a Tropea intorno a mezzogiorno di domani. Sono da poco passate le otto, il sole si immerge nel mare, colorando acqua e cielo di un’infinità di sfumature del rosso. Poi i colori si attenuano e cala la notte. Una notte mediterranea in mezzo al mare. Notte buia, senza luna. Ma i plancton sono illuminati lo stesso, dalla luce verde di via. Appaiono come stelle. Così che sembra non esserci differenza tra cielo e mare, che appaiano senza soluzione di continuità. Rimango a lungo seduto a prua a meditare su questo spettacolo. Incantato, non riesco a staccarmene. Il sonno è svanito di colpo.

Poi programmo una ventina di sveglie fino alle sei del mattino, una ogni venti minuti. A ogni sveglia un’accurata controllata dell’orizzonte a trecentosessanta gradi, alla rotta, alle vele, e da mezzanotte anche al radar, perché è arrivata a un tratto la nebbia. Finiti i controlli mi rimane un quarto d’ora circa di sonno. Voi non ci crederete, ma appena mi rimetto giù crollo di sasso in un sonno così profondo da aver l’impressione di aver dormito una notte intera. E sogno ogni volta.

Qualcuno si chiederà perché non metto l’allarme del radar. Preferisco così. Preferisco controllare la situazione. Sarà l’abitudine del direttore d’orchestra a tenere tutto sotto controllo. Se ci riuscissi rimarrei addirittura sveglio la notte intera. Soprattutto per godermi la magia della navigazione notturna in solitario.
Ci vediamo a Tropea.
 

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