PROFILO

15/07/2014 - 16:12

Da Cefalonia a Corinto.

Appena uscito dal porto di Fiskardo, mentre comincio a sistemare cime e parabordi, vedo avvicinarsi un gommone: è il mio amico Fulvio che viene a salutarmi una volta ancora, e a scattare qualche foto alla mia barca.

Le isole ioniche non sono la mia Grecia. Rappresentano per me un passaggio sulla rotta a est. Però Fiskardo è sempre affascinante, ed è piacevole sostarvi un po’, anche se è invasa dagli inglesi

Nel porto di Fiskardo ci sono quasi solo barche della società inglese di charter Sailingholidays, che rispetto all’anno scorso si è ampliata e ha colonizzato le isole ioniche. Ci sono gommoni con a bordo ragazzi biondi che appena arriva una barca della loro società la aiuta in tutte le manovre. E sul molo altri ragazzi corrono avanti e dietro impartendo ordini tramite il Vhf. Quello che dispiace è che i greci li lascino fare. Certo per loro sono soldi. Ma neanche tanto, perché la società di charter non è greca. Per fortuna l’Egeo è troppo ventoso per i charteristi inglesi, e almeno per ora non l’hanno colonizzato.

Nel porto si sente parlare più inglese che greco. “Oh, pittoresco!”. 

E sulla spiaggia sono tutti sdraiati su asciugamani blu e celesti con scritto “Sailingholidays”. “Oh, pittoresco!”. 
La mattina dopo sono tutti in partenza. E incomincia lo show: le hostess passano da tutte le barche della società di charter per ritirare la spazzatura e dare assistenza. Poi gli equipaggi vanno tutti a una riunione dove vengono impartite le direttive per il giorno: dove e come andare, da dove viene il vento, la rotta da seguire, l’ordine di partenza. Infine mollano gli ormeggi a turni di quattro barche, attendendo il segnale sul vhf, e nel piccolo porto si scatena il caos. Ancore incrociate, gommoni della società che sfrecciano a destra e sinistra per liberarle.

L’efficientissimo impero britannico ha trasformato i suoi sudditi in un branco di tonti incapaci. “Oh, pittoresco!”.
Finito lo show, mentre finisco di fare colazione in pozzetto, si avvicina un italiano che ha la barca ormeggiata vicino alla mia, una delle poche non da charter. Fulvio, Marianna e Lorenzo ieri han visto i banner e han letto a proposito del libro su internet. Scambiamo due chiacchiere e scatta subito un’empatia che sembra esserci sempre stata. Così mi invitano ad andare con dei loro amici greci a cena a una taverna in mezzo alle alture dell’isola.

E anche questo viaggio inizia all’insegna degli incontri. Non riesco a stare da solo. Quando gli uomini cercano la solitudine non la trovano. Quando sono soli e cercano compagnia non la trovano. E io sto imparando che non bisogna cercare ciò che si crede di voler trovare, ma accettare e metter a frutto ciò che si ha la fortuna di trovare e che si ha.

Alla taverna in montagna c’è musica tradizionale greca. E gli avventori, tutti greci, lontani dalla colonizzazione inglese si lanciano nelle loro danze caratteristiche, dopo qualche bottiglia di ouzo.
Al ritorno il mio iPhone, agganciando automaticamente un wifi, scarica oltre duecento messaggi. E capisco: in Italia hanno trasmesso il servizio su Lineablu girato quando ero ancora a Napoli. Eccolo:



L’indomani passa la polizia portuale per chiedermi un favore. Il posto dove ho ormeggiato è l’unico a Fiskardo che si può riservare, e per oggi l’ha prenotato il ministro della Macedonia. Quindi mi chiedono di rimanere in quel posto fino al suo arrivo, per evitare che ci si infili qualcun altro. Per sdebitarsi non mi faranno pagare la tassa portuale (undici euro al giorno). Ma non sarebbe necessario sdebitarsi, perché i greci già lo fanno con la loro gentilezza.

Due ore di navigazione nel canale di Itaca e sono a Eufemia. Uno dei cinque porti di Cefalonia. Prenoto per domani mattina una delle classiche piccole autobotti del gasolio, che qui in Grecia riforniscono le barche in qualsiasi porto, anche il più piccolo, a qualsiasi ora. In Italia invece si deve andare alla ricerca di un porto che abbia la pompa di benzina, che è immancabilmente chiusa nell’orario che serve, se non addirittura in disuso. Com’era quella storia che la Grecia è indietro rispetto all’Italia?

Undici euro l’ormeggio, contro la media di settanta di quelli italiani. Undici euro la cena alla taverna di fronte alla barca, contro i quaranta dei ristoranti italiani. Sono passato dalla media giornaliera di centodieci euro a quella di ventidue. Non male. E il gasolio? Un euro punto quattro.
Dal porticciolo di Eufemia a Patrasso sono cinquantadue miglia. Salpo appena fatto rifornimento di gasolio, che non avevo fatto in Italia in previsione di farlo qui. Allontanandosi dalle ‘colonie’ inglesi non si incontrano più barche in navigazione. Si aggirano tutte attorno al formicaio delle isole ioniche.

Attracco a Patrasso alle sette. E’ uno dei pochi marina dove si paga una tariffa d’ormeggio, si contano sulle dita di una mano, invece della solita tassa di undici euro. Avrei potuto allungare fino a Trizonia, deliziosa isoletta vicinissima alla costa, ma avevo promesso a Iorgo, il direttore del porto, di passare a salutarlo. L’anno scorso sono stato qui una settimana, per aspettare un pezzo di ricambio del motore. Lui mi aveva preso in simpatia, e mi aveva agevolato in tutti i modi. Una persona buona e gentile Iorgo. 

Ma Iorgo non lavora più qui. L’impiegato mi dice: “Quello è il mio nuovo boss”. Indica un ragazzo dall’aspetto trasandato, seduto su una sedia, curvo sul suo panino. Mio dio. Lo riconosco. E’ quello che Iorgo mi diceva essere un mafioso, un arrivista che cercava di estendere i suoi tentacoli ovunque. Sempre il profitto. Il maledetto profitto.

Mollo gli ormeggi presto dal porto di Patrasso, sul quale è calato un triste sipario. Dopo il ponte di Poseidone, vento in poppa piena. Non c’è modo di far portare il genoa, neanche a farfalla, soprattutto con il problema della trinchetta che non lo fa passare, va a collo e si ingroviglia tutto. Lo chiudo e procedo con la sola randa, ma con la “regolazione demenziale numero due” (avete letto “La musica del mare”?)

Poi però il vento aumenta. Sempre di più. Fino a che lo strumento arriva a segnare cinquantacinque nodi apparenti, quindi oltre i sessanta reali. Il pilota automatico non è abbastanza veloce a correggere onde e raffiche, così lo disinserisco e rimango al timone per quasi sei ore. Le raffiche di sessanta nodi mi inseguono fino all’ingresso del porticciolo di Corinto. Quel che mi preoccupa, oltre a ormeggiare, è mettere prua al vento per chiudere la randa. Con il motore a metà numero di giri la barca va indietro, lo metto al massimo: la prua entra nelle onde, e anche io. E’ dura ma alla fine ci riesco. Sul molo accorrono cinque velisti per aiutarmi. Una volta sceso mi stringono la mano e mi fanno i complimenti, sapendo quel che c’è fuori. 

Tra loro c’è anche un vecchio dalla lunga barba bianca. E’ Jonathan, con il suo immancabile cappello. Che personaggio. L’ho conosciuto l’anno scorso. Ha navigato ovunque, anche per gli oceani. Vive a Corinto ormai da otto anni. Lavora su un peschereccio, e nel porto controlla le barche degli stranieri che le lasciano qui per qualche mese, a volte un anno. Senza pretendere niente, aiuta tutte le barche che entrano, ma quelle degli inglesi no. Lui, che è inglese, gli inglesi non li sopporta: “Troppo presuntuosi, troppo arroganti”. Mi racconta che una volta aveva indicato a una coppia di inglesi dove potevano ormeggiare. Loro lo ignorarono dirigendosi verso una parte del porto dove c’è poco fondale. “No there! No there!”. Continuarono a ignorarlo finché non si arenarono. “Help!”. Di tornare in Inghilterra non ci pensa, preferisce dormire qui al sole in un barchino cabinato di cinque metri dallo scafo blu, più alto che largo, piuttosto che in una bella casa in Inghilterra al freddo. L’anno scorso, mangiando insieme a lui a un ristorante dove transitano tutti i velisti, il Mediterranee, avevo passato qualche ora della notte ad ascoltare racconti di mare. Racconti delle isole greche, dell’atmosfera hippie di Ikaria, del suo amato cane, trovato morto di ritorno dalla pesca. Nel farmi vedere la sua foto, che baciava dolcemente, gli si inumidivano gli occhi. Che personaggio Jonathan. 

Oggi però c’è la partita, e Jonathan si rintana nel suo barchino per vederla. E il Mediterranee ha chiuso, troppa poca gente. Corinto è una città di passaggio. Non vive di turismo. Davanti al porto c’è un zona pedonale piena di bar. Sono affollati da ragazze e ragazzi greci. Mi ero scordato della loro bellezza. La moda per i ragazzi è la barba. E alcuni di loro conservano le sembianze delle divinità antiche. Incredibile sta storia del Dna.
La zona pedonale è affollata anche da tanti cani randagi, ci sono sempre, li trovo ogni volta che passo qui. Nessuno li caccia. E sembrano vivere della generosità degli avventori dei locali. Si incontra anche qualche russo. Chissà perché hanno scelto questo posto per le vacanze. Il golfo di Corinto è un cul de sac. Lo stretto non è sufficiente a garantire un ricambio dell’acqua, forse per questo non è così trasparente come nelle altre località greche. La città è molto curata ma moderna, uguale a molte altre. Non c’è bisogno di venire in Grecia per trovare un posto così. 

La mattina non riesco a svegliarmi. Un po’ per la stanchezza, un po’ perché comunque in barca si dorme sempre così bene, specialmente con questo solito lieve dondolio. Poi mi alzo e mi accorgo che ho dolore in quasi tutto il copro. Scopro lividi e ferite un po’ ovunque. Ah, i sessanta nodi di ieri... Esco per fare una passeggiata. Ancora i complimenti dei velisti sul molo. Ma per cosa? Forse per quello strano istinto dell’uomo a voler superare i propri limiti. O comunque a esplorarli. Per dimostrare che siamo figli degli dei, degli Aloim? O forse per scoprire se è vero.

Tra quelli che mi han preso le cime ieri c’era una coppia, Renzo, di Auronzo di Cadore, e Teresa, scozzese. Sono venuti fin qui solo per vedere lo stretto. Ora aspettano che cali il vento per tornare nello Ionio e lasciare la loro barca, un bel Vauquiez, a Lefkas. Mi chiedono se attraverserò Corinto oggi, perché andranno in bicicletta a vedere lo stretto dall’alto, e in caso potrebbero fotografare il passaggio di Denecia. Non lo so ancora ma, qualora decidessi di partire domani per riposarmi, potrei andare con loro. Certo, fare in bicicletta tutti quei chilometri in salita non è proprio ciò che si dice un riposo, ma l’idea mi alletta. Son passato nello stretto già quattro volte, ma non l’ho mai visto dall’alto. Una volta arrivato sul ponte però devo dire che è più emozionante attraversarlo con la barca. 

La sera una sorpresa. Nella piazza davanti al porto un concerto di canti popolari greci. E’ un coro di dilettanti. Un coro molto intonato. Il loro Maestro li dirige con la mano destra, mentre con la sinistra suona il pianoforte elettrico accompagnandoli, senza mai guardare la tastiera, e senza mai sbagliare una nota. Molto bravo. Bisogna capitare per caso a Corinto per assistere a un concerto di questa bellezza. No, la musica non è morta. Si rifugia dai “giganti della montagna” negli angoli più impensati.

Il concerto prosegue poi sul pontile. Sul pontile galleggiante, per ormeggiare, ci sono degli anelli di ferro. Il movimento delle cime d’ormeggio li fa alzare. Nel ricadere, percuotendo l’anello a cui sono agganciati, emettono una nota. Un la bemolle. Come un mantra. Ed è un suono del tutto simile a quello emesso percuotendo un tasto tra quelli dell’ottava più acuta del pianoforte. Ecco, è la conferma di quel che ho sempre pensato. Sin da quella volta che da bambino chiesi di sentire il suono di ogni strumento per sceglierne uno. Il pianoforte mi parve troppo meccanico, senza un contatto diretto dell’anima, tra le corde e le dita. Uno strumento percussivo il pianoforte. In pratica è... un pontile.
 

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