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07/07/2020 - 17:56

Uomini e barche

Ferruccio Cadei naviga sempre

PEZZI DI STORIA CHE RESTANO - La scomparsa di Ferruccio Cadei, il primo costruttore dei 420 in Italia, il costruttore di centinaia di Limit, Illimit, 595bravo di Abrami, ma anche di Micropomo di Gambel. Il ricordo appassionato di Sergio Abrami, che con Cadei condivide una storia di formazione, attraverso barche dai nomi strani e ancora oggi naviganti, trovate progettuali e costruttive, incontri e sfide internazionali. Gli anni di una nautica pionieristica e davvero popolare, che forse non tornerà più. E che per questo è giusto ricordare così. Grazie Ferruccio

 

di Sergio Abrami

Ho appreso che Ferrucio Cadei ci ha lasciati. Sono in tanti nel mondo della vela, della nautica minore che gli devono riconoscenza e rispetto. Ha permesso a diverse migliaia di persone, contenendo i ricarichi sui "manufatti barca" non lontano da quelli di altri manufatti industriali che nel contempo produceva, di avvicinarsi al mare, alla nautica. E chi si bagna di acqua di mare non si asciuga più...

Peccato non avere una sua foto da postare. Persona schietta, diretta, è stato il mio primo contatto con la "nautica"... Prima come suo cliente con i 420, poi come "suo progettista". L'inizio: una storia tutta da raccontare. Dal 1971 fino al 1980 quasi in simbiosi...

Così iniziava un mio post su FB Studio SAYD. Scritto a caldo, sul telefonino, poco prima di andare a portare un saluto alla sala del commiato a Iseo ed stringere con un abbraccio la figlia Rosa che da decenni continua l’attività cantieristica a Monfalcone. Sentivo di dover esprimere pubblico ringraziamento a quella figura che indirettamente mi aveva portato nel mondo della nautica  più di mezzo secolo fa.

Ferruccio Cadei, un pioniere della nautica, delle costruzioni in VTR con una filosofia di vita come costruttore nautico molto particolare. In poche ore dalla stringata pubblicazione i contatti su FB siano schizzati a valori mai visti, hanno raggiunto superato il numero di 12.000 con centinaia di commenti e messaggi di cordoglio, segno di un sentimento diffuso di riconoscenza nei confronti di chi ha permesso a così tante persone di avvicinarsi alla vela.

Il mio primo contatto - Il mio primo contatto fu da cliente (ma pagava mio padre, ero un ragazzino di 16 anni) ovvero l’acquisto di un 420 (NB: 420.000 lire che si riducevano a 360.000 per noi soci ANS, il più vecchio club nautico del Sebino). Agli inizi io ovviamente non avevo né patente, né carrello. Chi come me non aveva carrello andava alle regate fuori lago di Iseo con le barche (ben tre, una sopra l’altra) trasportate con un malconcio furgoncino Alfa Romeo azzurro del cantiere. Spesso il driver era lo stesso Ferruccio o qualche dipendente del Cantiere.

Il “Cantiere” inizialmente era una struttura precaria in pannelli di vetroresina  situato affianco al cimitero di Iseo. Andare al “cimitero” per andare al cantiere era la tipica espressione di Cadei che lasciava perplessi i futuri clienti. L’ufficio era un prefabbricato in legno. Un tecnigrafo e alle pareti uno stupendo disegno prospettico (oggi diremmo in 3D) del Greck, un minicabinato a chiglia fissa di 5 metri clonato con pesanti modifiche a coperta e tuga del Maradeur, barchetta francese degli anni ’50.

La cosa notevole era la firma del disegnatore : Giorgio Barilani ! Ovvero il progettista dell’Acquarama e di tanti famosi Riva. Barilani ebbi modo in seguito di conoscerlo quando fu anche Presidente dell’As.Pro.Na.Di. e il sottoscritto Segretario Generale. Questo particolare link tra il più iconico dei cantieri del lago di Iseo, la barca di lusso per antonomasia e il più brillante dei fautori della nautica popolare meriterebbe davvero un discorso a parte…

E’ risaputo che i 420 di Cadei non brillavano di certo per la leggerezza, ma erano “strapazzoni” e in fin dei conti almeno in Italia si regatava ad armi pari. Entrato in confidenza con Ferruccio, sono arrivato ad avere in sucessione ben tre “420 by Cadei”, chiesi qualche modifica (che attualmente è contemplata dal regolamento internazionale) ma che fu considerata “fuori stazza” alle verifiche ai Mondiali a Cherbourg nel 1971. Per i più curiosi, si trattava di due rinforzi longitudinali sul piano di calpestio che irrigidivano il fondo…

Frequentavo il Cantiere e mi confrontavo con  Ferruccio con una certa assiduità. L’11 febbraio 1971 era uscita la Legge 50 sulla nautica da diporto che permetteva, restando sotto il limite dei 5 metri LOA di non essere iscritto nei registri, di non dover essere denunciato sulla dichiarazione dei redditi :  in pratica era nato il “natante”.

In Agosto 1971 a Cherbourg, in un ristorante sul classico tovagliolo di carta buttai giù le idee base di quello che sarebbe poi diventato il LIMIT. Non una barca grande rimpicciolita e scalata a 5 metri, ma un concetto diverso frutto di mie considerazioni sulla stabilità di forma e soprattutto sull’uso reale di un mini cabinato.

Agli inizi del 1972 passai in Cantiere e criticai scherzosamente (credendo opera di Ferruccio e non di un allora localmente famoso progettista di barche a vela a chiglia fissa che vinsero tra l’altro diverse Centomiglia del Garda) un progetto che aveva sul tecnigrafo, progetto che avrebbe dovuto sostituire il Greck che non aveva avuto gran fortuna. Era il classico cabinatino rimpicciolito.

Con impegno e raziocinio distrussi punto per punto il progetto di D.B., per inciso la mia cultura nautica di allora era frutto di letture su riviste francesi - Bateaux – Cahier du Yachting – Neptune Nautisme ed il britannico Sea Horse. I testi di studio a quel tempo disponibili erano solo in francese o in inglese e da quelli attingevo briciole di conoscenza…

La risposta di Cadei fu quanto mai lapidaria: “…fai facile a criticare, se pensi di saper far meglio fallo tu, fammi vedere...” Non lo avesse mai detto… forse ora non sarei qui a parlar di barche, e insegnare a corsi di yacht design… In quel periodo, seguendo i trasferimenti di mio padre, abitavo a Como. Ricordo ancora il periodo, i miei erano a Roma per una settimana e in quella settimana lavorai quasi h24 trasformai le idee del progetto nato sul tovagliolo a Cherbourg in un “oggetto barca”. Era il primo formale progetto by SAYD (Sergio Abrami Yacht Design).

Cadei, quando gli portai quella serie di tavole che per scaramanzia iniziavano la numerazione con il 113 (a quei tempi era il numero dedicato all’emergenza e proporre a un Cantiere una tavola 0001 non mi sembrò il caso…), tavole che costituivano il progetto “LIMIT” non commentò punto. LIMIT ovviamente perché  al limite della nuova legge appena entrata in applicazione. Prua quasi verticale per sfruttare fino all’ultimo centimetro i 5 metri . I rapporti lunghezza larghezza erano all’epoca inusuali, soprattutto la poppa era “spaventosamente larga”: mai visto nulla di simile, ma era tutto difendibile, inclusa l’assenza di tuga ed il bordo libero sensibilmente più alto delle imbarcazioni coeve. Fondo piatto e deriva mobile pivottante (soluzione che abbandonerò nei progetti degli anni successivi a favore di una più performante deriva a baionetta).

Ferruccio Cadei con quel suo sorriso sornione non commentò, disse solo: Sergio, lasciameli qui… Qualche mese dopo, in autunno, Ferruccio mi telefonò e mi disse:  “ma non vieni più sul lago di Iseo?” Alla mia più che scontata risposta, ovvero: “perché mai ?”, rispose, e ricordo ancora con emozione quelle parole… "ma per vedere la “tua barca”, il LIMIT!”.

Volai a Iseo e dal vecchio “mastro Caviglia” un artigiano ligure (e brontolone) trapiantato da decenni sull'Iseo, aveva lavorato da Baglietto costruendo i MAS ed in seguito motoscafi da corsa classe OE, vidi (ancora a chiglia in su) il modello del LIMIT.  Tra l’altro, sarà proprio Mastro Caviglia a costruire la mia prima (e unica) barca personale, in lamellare di Kaya nel 1977: Off-Limits.

Ma torniamo al primo LIMIT. Che emozione la mia prima barca realizzata! Emozione che credetemi si ripete da quasi mezzo secolo: le barche sono “piezz’e core” Cantiere Ferruccio Cadei ovvero una “start up” anni ’70, un coraggioso imprenditore amante della vela, della piccola nautica in grado di intuire tendenze e scoprire talenti. Negli anni ’80 farà così con l’Architetto Alberto Gambel, il progettista del Micropomo e di diverse altre barchette con altri cantieri. Ma il bello deve ancora venire. 

Alla fine del 1972 il Touring Club Italiano lanciava un concorso per promuovere la progettazione di una barca adatta al campeggio nautico. Il premio ammontava a un milione di lire, più di 8.000 euro attuali, ed era destinato a un costruttore italiano di una imbarcazione a vela con le seguenti caratteristiche:

* dimensioni e superficie velica inferiori ai limiti per l’immatricolazione;

* stazza inferiore a 3 tonnellate;

* galleggiabilità assicurata anche se completamente allagata con 200 kg di peso aggiuntivo;

* abilitata alla navigazione entro le 3 miglia;

* specchio di poppa dimensionato per una un motore fuoribordo  avente una potenza non superiore a 20 HP;

* carrellabile;

* capace di stivare in compartimenti stagni il materiale da campeggio;

* idonea a essere alata su una spiaggia dal suo equipaggio, eventualmente con rulli di gomma e palanchini, sempre stivati a bordo.

* Infine il progetto poteva essere originale oppure derivato da altra barca esistente e il costruttore doveva dimostrare di riuscire a far fronte alla prevedibile domanda del mercato della barca vincitrice.

Termine presentazione dei progetti: 10 aprile 1973. Scelta dei finalisti 30 aprile 1973. Prototipi pronti per la selezione in mare: 30  settembre 1973. Al Salone Nautico in una cerimonia pubblica sarebbe stato proclamato il vincitore.

Io ero socio del TCI dal 1957 – un regalo “educativo” dei miei – quando lessi sul “Bollettino del TCI” il bando succitato, ne parlai subito con Cadei. Ricordo lo scambio di vedute a riguardo con il classico pessimismo di entrambi: sarà già tutto deciso, figurati. L’unico vantaggio è che la barca esiste già, naviga è gia stata venduta, non ci sono spese da affrontare se non produrre le copie del progetto per la pre-selezione ed aspettare .

Parteciparono, mi dicono dai 60 ai 70 progetti, numeri incredibili, vero? Furono selezionati tre a cui fu chiesto di recarsi a Genova per la valutazione finale, inclusa la prova in acqua da effettuarsi facendo base in area Fiera di Genova (che mezzo secolo fa era ben diversa dalla attuale).

I finalisti erano: l'U16 dell’architetto romano Costantino Papaduli, Cantiere Conaplastic  di Salerno. Un barchetta a spigolo in CPM del Prof. Sergio Crepax (autore nel 1986 di uno dei più bei testi di progettazione scritti in italiano (dove sono citato nei ringraziamenti) edito da Zanichelli, introvabile e mai ristampato) non rammento il cantiere. E il LIMIT by Sergio Abrami, Cantiere Ferruccio Cadei ISEO (BS).

Giuria costituita da esperti di vela della MMI Amm. Giuriati, del CVC Amm. Scaroni, Vittorio Bertone di Sambuy, e del TCI Guido Colnaghi. Tester in mare nientepopòdimenoche... l’Ammiraglio Tino Straulino!

 Straulino al timone del Limit

Ero a bordo durante le prove e ho avuto modo di chiacchierare con l’Ammiraglio velista più medagliato di sempre (due medaglie olimpiche in Star – oro e argento – sette mondiali tra Star e 5.50 SI con 4 ori, due argenti ed un bronzo, 12 titoli europei, 11 ori ed un argento tra Star e IOR ), ma anche e soprattutto medaglia d’argento al valore militare il 14 luglio 1942 e medaglia di bronzo al valore militare 15 settembre 1942. Una leggenda della vela e degli incursori della Marina italiana.

Straulino, una persona che ricordo per la sua cortesia e per la sua sensibilità a portare una barca a vela, foss’anche un umile LIMIT. Una volta a bordo mi chiese se avevo preparato una tabella per l’utilizzo delle vele come aveva ricevuto da Dick Carter per l’Ydra, mi parlò di quanto lo avesse impressionato Ganbare e dell’aspetto “quasi hippy” del suo progettista, un “tale” Doug Peterson. Avevo 23 anni e quei riferimenti al famoso Carter ed ad altri progettisti a me noti solo attraverso le pagine delle riviste mi emozionarono.

Soddisfatto delle caratteristiche veliche e di manovrabilità scendemmo a terra. Io ero in braghe blu alla marinara (quelle col pattellone davanti) e maglione irlandese, zoccoli di legno ai piedi, così com'ero venni caricato su una macchina della Marina con bandierina multistellata e portato con alcuni giurati in Navalgenarmi (ufficio del Genio della MMI non lontano dalla fiera di Genova). Ricordo ancora il rumore degli zoccoli in questi corridoi deserti, uffici chiusi ma per un manipolo di ammiragli famosi… Ancora adesso a quasi mezzo secolo non so se quel rimbombo fossero i miei zoccoli o il mio cuore per l’emozione. Mi sentivo a disagio, ero concio un po' “fuori ordinanza” anche con i capelli... lunghetti.

Navalgenarmi era stata aperta per noi, ma essendo fuori orario era deserta e servivano strumenti da disegno. Penso sia stato l’Amm. Scaroni (al quel tempo forse già in pensione e segretario generale del CVC) che “forzò” un cassetto della stanza dei tecnigrafi per recuperare squadrette e un goniometro. Quale era il problema che ci aveva condotti lì? Forse ricorderete che all’epoca le auto erano tutte molto strette, le utilitarie in particolare, bisognava vedere di quanti gradi ruotare l’invasatura per rientrare negli ingombri massimi per un 1100 FIAT. Bastavano 10° e così si superò l’ultimo scoglio!

LIMIT diventerà LIMIT-TCI, nel 1975 uscirà anche una seconda serie riconoscibile dallo specchio di poppa: era leggermente più stretta e più curata in alcuni dettagli (deriva, timone, tambuccio). Piano velico identico: grande (si fa per dire) genoa e piccola randa, quasi un trimmer per regolare il flusso.

L’albero era fatto in cantiere, le posizioni delle crocette non erano il massimo, quando a distanza di tempo me ne accorsi e volli cambiarle la risposta di Cadei fu perentoria: …hanno creato problemi, qualcuno ha sollevato obiezioni? No! Quindi restano così: se qualcuno deve cambiare sartiame non voglio impazzire a sapere se è un modello vecchia serie o meno.

Aneddoto divertente: in quell’epoca uscì con minor fortuna commerciale un barchino fortemente ispirato al Limit, ma era una casa delle bambole, con gli “interni” e pure un oblò sullo specchio di poppa che faceva tanto Grand Soleil di Finot. Il piano velico era praticamente copia-conforme del Limit, incluso l’errore (peccato veniale) del posizionamento delle crocette.

Assolutamente da citare  il modello per realizzare lo stampo della seconda serie fu una piccola opera d’arte di un altro grande personaggio della nautica gardesana e non solo: Ettore Santarelli. Fu così che ci conoscemmo e frequentai anche professionalmente Santarelli. Gran personaggio, e chi lo ha conosciuto non può che confermarlo. Calcoli di stazze, verifiche di laminazioni. Per Ettore che veniva dal RORC le formule IOR erano scritte in arabo, mi diceva: fai tu, mi fido… Differenze di catene, puntali al punto giusto… insomma tutto quello che era il saper maneggiare una formula che ho sempre amato…  IOR: bei tempi!

Sperimentazioni & C - Ma torniamo ai primi anni con Ferruccio Cadei: facevamo anche “sperimentazione spiccia”, un po' come elica Vs. propulsione a ruote. Costruimmo in cantiere un trabiccolo per confrontare impiombature fatte con i tallurit (gli stessi che usava con i 420) rispetto a quelle fatte con i terminali inox da rullare (che fu la soluzione vincente). La stessa “sfida” tra rullato e Norseman (cono e controcono) che vide la vittoria del rullato anche per la maggior facilità e velocità di esecuzione. Poi visto il crescente numero di alberi di allestire, passo il lavoro ad un certo Luciano Lievi – LICOSPAR – che con queste commesse iniziò una reale produzione in serie di alberi da regata.

Negli anni sono stati realizzati più di 450 LIMIT-TCI, il “cantiere” da un capannone precario divenne una struttura in CA con sistemi di sollevamento (rigorosamente manuali, ma efficaci). La produzione di 420 si alternava ai LIMIT-TCI e a manufatti in VTR come quelle gigantesche forme di Grana Padano pubblicitarie o stampi di provoloni per caseifici.

Una battuta storica di Ferruccio indicando una mega forma di grana padano caricata su un camion: “quelli non si lamentano mai che fa acqua, che è troppo pesante”  riferendosi chiaramente al confronto con i clienti del 420…

1976 Illimit(ato)  o quasi - Arriviamo nel 1976 ed il 6 marzo esce la Legge 51 della nautica da diporto che eleva a 6 metri il limite dei natanti con tutti i benefici, soprattutto fiscali, relativi. Il non dover denunciare una “barca” sul 740 era in effetti l’argomento di maggior attrattiva per la clientela italiana. Per chi come me amava giocare con formule e limiti: un invito a nozze. Ne parlai con Cadei e fu entusiasta  dell’idea, soprattutto perché l’estate 1976 era foriera di novità anche per il mondo dello IOR ai minimi del rating, ovvero 16’.

Il CVP (Circolo della Vela di Parigi) dopo la One Ton Cup 27’ IOR, lanciata nel 1965, propone una nuova Ton Cup: saranno i Mini Tonner a disputare il loro Mondiale a La Rochelle a fine Agosto. C’è tempo per cercare di combinare interessi sportivi e piccola crociera (molto sportiva) guardando essenzialmente il mercato italiano. Illimit, perché “illimitato” sarà il nome del nuovo progetto.

Mi studio con attenzione le condizioni meteo marine a La Rochelle in agosto e lavoro su una carena che dia il meglio di se con arie leggere e di bolina. Di poppa sarà lo spy che pagava penalità a fare la differenza, una scelta azzardata, ma vincente.

Il Progetto ILLIMIT - Una coperta pensata per la regata e progettata nei minimi particolari: coperta piana con pozzetto senza panche e con due livelli e con tanto di puntapiedi per quello del timoniere. Leggero rialzo per i winch, risparmio tempo nei montaggi, rotaie incassate per poterci sedere sopra. Bussola Tactical Suunto incassata sotto gli occhi del timoniere, recesso a prua per il tangone, mangia spi come sull’FD e a poppa alloggiamento recessato per il ferro di cavallo (sempre a portata di mano, ma protetto dal sole e da occhi indiscreti). Lati tuga senza finestratura, ma con una banda scura con antiscivolo integrato.

La coperta siffatta, comodissima in regata dove nessuno si sognerebbe mai di sedersi sulle panchette, offriva maggiori spazi sotto coperta e minor peso a poppa. Gli interni “open space” al minimo del regolamento di stazza, con i supporti cuccette che fanno da trave longitudinale e i supporti stipettatura dei fianchi che irrigidiscono le fiancate, poppa stretta, prua poco slanciata e leggermente clipperata per guadagnare sulla lunghezza d’acqua.

Blocco “cucina” a scomparsa sotto il pozzetto o utilizzabile all’esterno. Tavolino ruotante sul puntello dell’albero (che era in coperta per limitare lunghezza e facilitare armo con un piede snodato) che permetteva di trasformare la zona di prua in cuccettone…

Bulbo trapezioidale rovesciato per abbassare il baricentro. Semplicità costruttiva ed efficienza innanzi tutto. Il timone dell’Illimit ci farà impazzire. Forma molto semplice, appeso allo specchio di poppa perfettamente verticale , di forma trapezioidale, con un richiamo al “classico” sopra il galleggiamento. Veniamo da lontano, o no?

Un astuto sistema di femminelle (veloce, economico, sicuro) completa l’opera, ma c’è stato un ma: fin dalle prime uscite arrivati a 5 nodi iniziava a “cantare”. Un suono dolce, armonioso, ma indizio di una risonanza non accettabile. Feci fare sotto gli occhi allibiti degli operai del cantiere e di Ferruccio che mi aveva dato carta bianca un foro con una punta a tazza  da 20-25 mm ed introdussi 20 gr di piombo (i pesini dei cerchioni delle automobili). Tappato e raccordato. Vibrazioni e soprattutto “ululato” scomparsi. Feci poi modificare il profilo alla base allargandolo di 15 mm: fenomeno scomparso e mia reputazione di “magician” accresciuta.

Cadei per la “spedizione alla Rochelle” comprò un moderno furgone  FIAT 242 con pianale che fece poi allungare in una carrozzeria industriale per poter caricare l’invaso dell’Illimit.

Pochi giorni prima della partenza Ferruccio ebbe l’infelice idea di fare una foto ricordo con il “nostro” Illimit amaranto I-7150 sul camioncino ed uno verde mela sul carrello al seguito. Barche alberate… peccato che sul piazzale del Cantiere passasse una linea a 380 V… Ricordo uno schiocco tremendo. Sartia alta fusa, albero bucato nella parte alta. Per fortuna nessun folgorato… Partimmo per la Rochelle con due alberi, il suo originale riparato ed uno di scorta… Effetto professionisti che viaggiano con due alberi assicurato. Anche questo era Ferruccio Cadei…

Il viaggio di andata fu funestato da un cedimento strutturale del pianale allungato. Il tutto a Carcassonne (nomen omen?). Non c’erano i cellulari, complicato telefonare in Cantiere, ricevuto carta bianca da Cadei a procedere. Mi sono inventato una soluzione che ha retto fino alla Rochelle e ritorno. Noi italiani siamo maestri nelle emergenze…

Vi lascio immaginare la curiosità di regatanti e colleghi al Vieux Port durante le verifiche di stazza dell’Illimit: barca di uno sconosciuto italiano (tal Amaranto, certamente di origini sud americane, nella scheda in bacheca al Club al posto del nome del progettista avevano fatto confusione e messo il colore) e poi soprattutto in acqua per i primi test, i confronti a distanza ravvicinata… Alla sera quando andavamo a mangiare nelle trattorie sul porto ricordo ancora brusio: ah, les italiens, e poi il silenzio. 

Facevamo prua ed avevamo passo… e per di più nessuno ci aveva mai sentito nominare. Al timone Luca Garioni (regatante in Finn e Tornado), il sottoscritto spi &e navigatore (correnti, coefficienti di marea, tattiche legate all’evoluzione dei giri di marea nei vari settori del percorso, riconoscimento costa e carteggio), a prua il fido Franco Minola, mio prodiere abituale sul 420 Diomedea. Un equipaggio affiatato, poche parole, bastano le occhiate.

A proposito delle performance di bolina di Illimit. Ci fu anche un già allora famoso progettista francese che rinunciò alla soluzione deriva mobile assimmetrica sdoppiata (in teoria più efficiente) quando si accorse durante le prove che tra tira su, tira giù in virata perdeva rispetto a noi… avevano Sandro Berti Ceroni al timone, Jean Marie Finot a fare tattica e tal Hudinu alle manovre: un sempre sorridente giapponese del Cantiere Yamaha, cantiere che avrebbe poi prodotto in Giappone le barche di Finot.

Jean Marie mi invitò poi al cantiere Mallard per farmi vedere la sua ultima creazione e fare una lunga chiacchierata su filosofie progettuali. Ricordo ancora quel tardo pomeriggio nel piazzale del Cantiere alla Z.I. di Perigny appena fuori la Rochelle. Ma alla Rochelle c’erano anche Berret, Faroux, Troublè, Cordelle ecc… solo per parlare dei più famosi : il ghota della vela.

Riferii le prime impressioni a Cadei, che non amava muoversi, farsi vedere, preferiva soffrire da casa, anzi dal Cantiere. Lapidario: fatevi onore! E ci facemmo onore.  60 iscritti, secondi delle barche di serie e settimi assoluti. Secondi, ma con un po' di amaro in bocca per fortuna scoperto solo l’anno seguente. Chi ci soffiò il titolo delle barche di serie avrebbe dovuto essere squalificato: aveva “l’abbuono” per il motore FB, ma non c’era né motore, né tantomeno l'attacco sullo specchio di poppa… Ne venni a conoscenza nel 1977 dai francesi del Bid, progetto Faroux; non fecero protesta (che avrebbe innalzato di un posto anche loro) perché tra francesi ci si aiuta… 

Giuro che i fratelli Caparros di Bid mi risposero così… e quando decenni dopo al Salone di Parigi incontrai Finot, questi mi venne in contro dicendomi “ma non sarai ancora arrabbiato con me, vero, me lo ha detto Bernard Chéret che ti ha incontrato a un convegno di architettura navale…" Come si dice in francese… glisson! Rientro trionfale da La Rochelle con coppa (d’argento vero e con targhetta importante) sul cruscotto del camioncino. Coppa identica a quella del vincitore  assoluto MTC 1978 rubata al velaio Huber Raudaschl dalla sua macchina in sosta (in Italia).

Noi italiani, in generale siamo un po’ esterofili, altro che i francesi… ma anche i risultati all’estero valgono come per le regate lunghe di altura coefficiente 2.0. Fu un successo e come con il LIMIT - TCI spesso Cadei restituiva le caparre convinto di non farcela a produrre. Progettare è spesso anche organizzare il lavoro di cantiere: mi seccava rinunciare a royalities su barche non vendute per impossibilità di produrle e riottosità ad affidare la produzione a terzisti.

Stampare il guscio, la carena con i controstampi interni era veloce. I tempi morti, i ritardi erano dati dalla coperta, più complicata, con cambi di direzione dei rinforzi, puzzle del core della struttura a sandwich, ma soprattutto il montaggio del fitting (anni prima avevo visto da Dufour a La Rochelle qualcosa che per me era inimmaginabile, una, anzi più catene di montaggio, dove fino all’ultimo le barche erano aperte per lavorare con più spazio e comodità). Copiare in questi casi è lecito.

Proposi un secondo stampo con una diversa tipologia di coperta certamente più convenzionale: con le panchette in pozzetto e un passo d’uomo apribile sulla parte anteriore della tuga. Nasce così l’Illimit versione “crociera” raddoppiando la produzione settimanale che balza a quasi 4 barche la settimana. Solo chi ha visto il Cantiere può capire il “miracolo”.

Bisognerebbe chiedere all’AICI (Associazione Italiana Classi IOR) quanti numeri velici e quanti certificati di stazza IOR sono stati rilasciati ad Illimit (sia regata che crociera) in quegli anni. Mi fai spendere troppo! Bonariamente Ferruccio Cadei mi rimproverava che lo facevo spendere sia in attrezzature di cantiere che in fitting. Ma si rendeva conto che si stava facendo il salto di qualità (pur conservando l’essenzialità che è sempre stata la caratteristica più appariscente delle barche che uscivano dal suo cantiere).

Così arrivò finalmente la bilancia di precisione per far sì che gli Illimit andassero in acqua esattamente con lo stesso peso (max scarto 1-2 kg). Per le stazze, le verifiche dei bordi liberi, marcature da stampo sulla sheerline dei punti di misurazione e strumentino a misura prefissata da mettere in acqua  spostando poi quei 5-10 kg di zavorra di assetto per “prendere” i bordi liberi quasi al volo. Anche per i colori degli scafi il buon Ferruccio si lamentava: sceglievo i più cari (perché più resistenti agli UV) così anche a 45 anni dal varo, con una sana passata di polish spesso ritornano lucidi e con colori quasi vividi… Cosa che non si può dire di molte barchette coeve…

L’obiettivo di Cadei era produrre buone barche a prezzi accessibili. Buona barca significa buon progetto, ma anche buoni materiali, attenta lavorazione, essenzialmente evitare “problemi”. I problemi glieli creavo io con certe mie richieste sul fitting. Storica e illuminante la discussione sul numero di vie dei bozzelli per la regolazione del patarazzo (strallo di poppa sdoppiato alla base. Io volevo di serie un bozzello con arricavo a tre vie, il minimo a mio giudizio per poter lavorare al meglio sulla randa flettendo l’albero. Ferruccio fu irremovibile e la motivazione ineccepibile: …”Sergio, buona parte di chi acquista queste barchette è alla prima barca non ha le idee chiare (eufemismo), chi “sa” cambierà certamente bozzelli e sistema, chi non sa, così almeno non può “fare danno”… “ frase assolutamente da incorniciare!

E siamo arrivati al 1977 - Nel frattempo avevo disegnato un one off in lamellare di kaya, una evoluzione dell'Illimit, più lungo del 11%, con una poppa più larga (evoluzione con gli anni di tutte le carene). Un gioiellino con fasciame a vista, verniciato con trasparente opaco ( tipo calcio di fucile) . Investii in barca le royalties delle barchette. Costò, nb, costò tre volte il prezzo al pubblico dell’illimit. Volevo anche dimostrare che se non c’erano problemi di budget sapevo anch’io fare belle barche o oggetti naviganti come li ho sempre chiamati io. Ferruccio pur disapprovando questo figlio di famiglia allargata mi aiutò nel reperimento del fitting e a tenere sotto pressione Mastro Caviglia, un artista ma… Barca stupenda, ammirata ovunque arrivasse, descritta da una rivista francese come “un modellino di un prima classe IOR di lusso”.

Arriva il 595bravo - Il Cantiere Cadei era anche il punto di ritrovo di velisti ed ex velisti, quasi una seconda sede dell’ANS. In uno di questi incontri (brain storming si direbbe adesso) ci si focalizzò sull’assenza sul mercato di una barca da singolo che fosse accessibile a velisti di grande esperienza, ma di perduto vigore fisico. Il promotore di tale iniziativa fu Giorgio Gallini, appassionato regatante con le Stelle e con i Soling, uomo d’affari genovese trapiantato sul lago di Iseo. Cadei e Gallini mi affidarono l’incarico dandomi carta bianca su forme e soluzioni, il principio ben chiaro era mettere alla pari persone leggere e pesanti, anziani e giovani. 

L’aspetto di questa nuova barchetta era un mix tra quello dei più recenti 5.50 SI e certe poppe di Ron Holland a “cofano di maggiolino”. La carena: un piccolo capolavoro, un mix di funzionalità non disgiunto all’estetica, Barca decisamente da bolina, la regina delle andature, ovvero la vittoria dell’uomo sul vento. Nacque così il 595bravo. Lungo poco meno di 6 metri – lunghezza che permetteva buone prestazioni, facilità di gestione e trasporto e soprattutto costi contenuti – era stretto per minimizzare l’apporto di momento raddrizzante costituito dal peso dell’equipaggio. Nato come singolo, con tutte le manovre sdoppiate e demoltiplicate, il pozzetto all’occorrenza poteva accogliere comodamente fino a tre persone .

Fiocco autovirante e avvolgibile, spi solo per la versione in doppio. Naturalmente a chiglia fissa con alta percentuale di zavorra. Sospendite integrate per facilitare le manovre sotto gru. Barca equilibratissima, piacevole da condurre in ogni situazione. Con arie leggere o inesistenti si muove senza spostare l’acqua. Venne redatto sulla falsariga del Soling un regolamento di stazza molto dettagliato. Proprietaria dei piani la neo costituita associazione di Classe 595bravo, cantiere licenziatario: Cadei. Ebbe un certo rilievo anche e soprattutto sulla stampa straniera, ricordo ritagli di quella tedesca e australiana. Si crearono piccole flotte allo YCI di Genova e sul Garda.

Le prime regate sul Garda – servivano 5 barche iscritte per fare “classe” – crearono panico tra i piccoli crociera: anche in tempo reale gli snelli e veloci 595 dribblavano i cabinatini ben più grandi ed invelati con relativa nonchalanche. Tre 595bravo furono acquistati anche dalla Marina Militare Libica e finirono al Circolo Ufficiali di Tripoli. Con Ferruccio commentammo che forse la frase “armata a singolo” avesse creato interesse e confusione, no, non era un Oto-Melara canna singola, ma un albero in alluminio che avevo progettato appositamente per quella barca.

Il giusto profilo, realizzato in provincia di Brescia con la giusta lega. Sull’estruso erano realizzate delle linee di riferimento per facilitare il montaggio del fitting ed il taglio per la rastrematura. Dei piccoli perturbatori sulla superficie laterale e l’incasso a V della gola per il gratile della randa erano le raffinatezze aereodinamiche che avevo introdotto in quel piccolo profilo disegnato ad hoc. Cadei si entusiasmava per queste “invenzioni”, le sapeva apprezzare, ma era un disastro dal punto di vista commerciale. 

Dal 1978 la licenza di produzione del 420 era passata all’Alpa di Offanengo, passaggio che Ferruccio aveva mal accettato, considerando quanto si era prodigato negli anni per la associazione di classe italiana la UNIQUA-ITALIA. Ma mancavano i numeri… Si “vendicò” trasformando gli stampi del 420, modificandone lunghezza e coperta creando la BS (barca scuola – ma anche targa di Brescia). BS = Barca strapazzona, poppa aperta, robusta, facile da assemblare, usata con soddisfazione da diverse scuole vela anche in Sardegna.

E’ di quell’anno l’inizio della collaborazione con l’Architetto Alberto Gambel che propone a Cadei un MICRO. Classe nata in Francia nel 1977 su iniziativa della prestigiosa rivista Bateaux. Barchette di 5.50 m ed in rapida diffusione a livello europeo. E fu MICROPOMO. Ed a quel punto fui io a sentirmi “tradito”… Ma  questa è un'altra storia, che porterà ad una separazione del consolidato binomio Cadei-Abrami e alla nascita nel 1980 dello SCHERZO per il Cantiere Nautivela  nome non casuale di annotazione musicale, serie di nomi che utilizzavo per i miei progetti, termini in italiano che sono internazionali, non vengono tradotti e soprattutto raccontano che “veniamo da lontano”).

Nautivela: considerata a ragione la Rolls Royce delle derive da regata, un cantiere conosciuto in tutto il mondo della vela olimpica per la qualità dei suoi manufatti. Da notare che nel frattempo la licenza del famoso 420, chiuso il Cantiere Alpa, era nel frattempo passata proprio alla Nautivela…. E il cerchio per quanto mi riguarda si chiudeva.

Riconoscenza… - Non solo il sottoscritto che ha avuto con lui l’imprinting , l’inizio di una semisecolare carriera, ma anche le migliaia di persone che hanno iniziato a navigare ad avvicinarsi alla vela con le imbarcazioni costruite da Ferruccio Cadei devono a lui riconoscenza. Cadei fece nascere nell’Italia degli anni ’70 una nautica davvero popolare che forse purtroppo non vedremo più.

Cadei fu un personaggio davvero unico, un pioniere della nautica minore, delle costruzioni in vetroresina da lui chiamata scherzosamente “vetroTeresina”, un uomo  che verrà ricordato per il suo modo di fare ma anche per le sue non comuni capacità di produrre oggetti galleggianti, barche realizzate con una filosofia davvero particolare orientata al contenimento dei costi senza rinunciare alla sostanza.

Ora la figlia Rosa, anche lei appassionata di vela, continua la tradizione di famiglia in quel di Monfalcone e spero che trasmetta tale passione ai figli… Buon vento Ferruccio!

http://www.cadei.it/index.php/it/chi-siamo

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